Che
cosa è cambiato nella gestione dei pazienti con la Sindrome da Anticorpi
Antifosfolipidi
dopo
l’ultimo congresso internazionale?
Pier
Luigi Meroni
Dipartimento di Medicina Interna, Università di Milano,
IRCCS Istituto Auxologico Italiano,
Unità di Allergologia e Immunologia Clinica.
Lo scorso
Settembre si è tenuto il 10mo International Congress on
Anti-phospholipid Antibodies che è stato preceduto da una Consensus Conference
il cui obiettivo era di aggiornare le linee guida per la diagnosi ed il trattamento
dei pazienti positivi per anticorpi anti-fosfolipidi. Circa 100 delegati
provenienti dai Centri interessati al problema e sparsi nel mondo hanno
discusso i diversi aspetti; un riassunto delle conclusioni raggiunte sarà
pubblicato a breve sulla rivista LUPUS.
Quali sono stati
i problemi discussi?
1.
Come
supportare la diagnosi;
2.
come
trattare le manifestazioni cliniche;
3.
cosa fare
in termini di prevenzione.
E’ interessante
notare come le domande che si sono poste i Medici coincidano strettamente con
le richieste più frequenti che i Pazienti rivolgono loro. Questa è la ragione
per la quale ritengo utile condividere con i Pazienti le conclusioni principali
e divulgarle in maniera comprensibile.
Come supportare la diagnosi di Sindrome
da Anticorpi Antifosfolipidi (APS)?
Fondamentalmente la diagnosi è formulata
sui consueti criteri:
a)
una
positività persistente (che dura per più di sei settimane in esami successivi)
per anti-cardiolipina e/o per Lupus Anticoagulant.
b)
La
presenza di una trombosi venosa e/o arteriosa documentata con esami clinici e
strumentali e/o una storia di tre o più aborti precoci o di almeno un aborto
nell’ultimo trimestre di gravidanza o di pre-eclampsia (gestosi) precoce e
severa.
Quali le novità?
·
I test di
laboratorio sono stati meglio standardizzati negli ultimi anni, grazie a studi
che hanno coinvolto numerosi Centri Europei. Esistono al riguardo nuove linee
guida e nuovi reattivi che dovrebbero migliorare progressivamente
l’attendibilità dei risultati. Vi sono altri test diagnostici per i quali sono
in corso studi di conferma e che saranno disponibili a breve; primo fra tutti
il test per anticorpi anti-beta 2 glicoproteina ed in seconda battuta quello
per anti-protrombina. Il vantaggio di avere a disposizione questi nuovi test
sarà fondamentalmente quello di poter disporre di più test di conferma: i dubbi
sulle positività e le differenze tra i vari laboratori dovranno
progressivamente diminuire.
·
Le lista
delle manifestazioni cliniche della Sindrome si sta allungando. In altre
parole, è probabile che in futuro la diagnosi di APS sarà presa in
considerazione non solo quando è presente una storia di abortività ricorrente
e/o di trombosi. Ad esempio, un diminuito numero di piastrine (non molto
marcato) è molto sospetto dal momento che circa il 20% dei pazienti con APS
presenta questo dato di laboratorio, come riportato nello studio del gruppo
Europeo che ha valutato 1.000 pazienti. Analogamente, si stanno moltiplicando
le segnalazioni di manifestazioni del sistema nervoso centrale diverse da quelle
solitamente considerate (ictus, TIA): manifestazioni epilettiche (specie in età
pediatrica), emicrania, disturbi del comportamento.
Perché è importante avere
in mente queste possibili nuove associazioni?
E’ importante sia per fare
una diagnosi precoce e sia per meglio utilizzare i farmaci a nostra
disposizione. Due gli esempi più chiari in questo senso. Se gli studi futuri
dovessero confermare l’associazione tra anticorpi anti-fosfolipidi ed alcuni
casi di epilessia, sarebbe in teoria logico utilizzare in questi pazienti una
terapia anti-aggregante piastrinica (o addirittura anti-coagulante) piuttosto
che i classici anti-epilettici. Forme di emicrania resistenti alle terapie
usuali ed associate alla presenza degli anticorpi anti-fosfolipidi sembrerebbero
trarre giovamento da una terapia anti-coagulante, come recentemente riportato
dal gruppo del Dr. Hughes.
Come
trattare le manifestazioni cliniche?
E’ stato raggiunto un
notevole consenso su come trattare le gravidanze nelle donne con anticorpi
anti-fosfolipidi. La scelta dei farmaci (aspirina a basso dosaggio, eparina non
frazionata o a basso peso molecolare), l’inizio del loro utilizzo ed il loro
dosaggio sono stati discussi e stabiliti. Si è fatto anche il punto su come
individuare le pazienti più a rischio per eventuali complicazioni trombotiche
in aggiunta al problema dell’abortività.
Altri tipi di trattamento (ad esempio l’uso di
immunoglobuline endovena) non sembrano mostrare reali vantaggi rispetto ai
farmaci precedentemente menzionati e presentano costi elevati. Il loro uso è
suggerito solo in quei casi eccezionali che non rispondono alla terapia
standard.
Anche l’approccio terapeutico alle trombosi in fase acuta
risulta essere uguale nei diversi Centri. In pratica non vi è differenza nella
gestione di un paziente con una trombosi venosa o arteriosa acuta sia con che
senza positività per anticorpi anti-fosfolipidi.
Cosa
fare in termini di prevenzione?
Decisamente
più complicato è come prevenire le recidive delle trombosi. Tutti gli studi
concordano infatti sul dato che la presenza di anticorpi anti-fosfolipidi
rappresenti un fattore di rischio per la comparsa di trombosi venose ed
arteriose. Il problema pratico è quindi come prevenirle ed in particolare:
a)
come comportarsi nel caso di
un paziente che abbia già avuto un evento trombotico e sia stato trovato
positivo e
b)
cosa fare con i pazienti
positivi per gli anticorpi ma che non hanno mai avuto eventi trombotici.
Nel primo caso, la maggior parte dei
Centri suggerisce una terapia anticoagulante per via orale per un periodo di
tempo superiore ai sei mesi dopo l’episodio acuto trombotico venoso. In altre
parole, mentre i pazienti con trombosi venose, ma negativi per
anti-fosfolipidi, sono scoagulati per sei mesi soltanto, i pazienti con APS
dovrebbero prolungare la terapia per evitare recidive. Probabilmente la terapia
anticoagulante orale dovrà essere continuata per tutta la vita, ma non vi sono
alla data attuale studi che ci dicano se questo atteggiamento è corretto o
meno. Dal momento che la terapia anticoagulante può determinare anche effetti
collaterali (sanguinamenti) si suggerisce al Medico di valutare caso per caso
il rapporto tra potenziali benefici e possibili effetti indesiderati.
Collateralmente si dovranno evitare o tenere in considerazione tutte quelle
situazioni che tendono a favorire una trombosi del circolo venoso:
immobilizzazione protratta, interventi chirurgici, gravidanza, terapia con
anticoncezionali o con estrogeni per via orale etc.
Analogamente se il paziente ha avuto
un evento trombotico arterioso, il suggerimento è quello di instaurare una
terapia preventiva per eventuali recidive o con farmaci che riducono
l’aggregazione delle piastrine o con anticoagulanti per via orale. Il tipo di
farmaci da utilizzare deve essere deciso dal Medico Curante sulla base della
valutazione di ciascun caso clinico. Dovranno anche essere allontanati tutti
gli altri fattori che favoriscono le trombosi arteriose: ipertensione
arteriosa, fumo di sigaretta, alterazioni dei grassi del sangue etc.
Un altro problema è rappresentato
dall’intensità della terapia anticoagulante per via orale da utilizzare in
prevalenza nei pazienti con trombosi venose. Fino a poco tempo fa era infatti
molto dibattuto se usare una forte scoagulazione (INR >3) oppure se utilizzare
la più comune intensità di terapia (INR 2-3) come usualmente fatto nei pazienti
con trombosi venose ma senza anticorpi anti-fosfolipidi. Il problema è anche in
questo caso sempre lo stesso: quale è il bilancio tra gli effetti collaterali
(sanguinamento ad esempio) ed il beneficio della terapia (nuovi episodi
trombotici)? A questo riguardo sono stati analizzati i molteplici studi
sull’argomento e si è cercato di trarre delle conclusioni.
La maggior parte dei Centri ritiene che una terapia
aggressiva (INR>3) abbia un migliore beneficio e che in ogni caso i vantaggi
superino gli effetti collaterali, anche in virtù del fatto che l’età giovanile
della stragrande maggioranza dei pazienti con APS rappresenta un fattore di
protezione nei confronti dei sanguinamenti. Tuttavia in mancanza di studi in
grado di valutare l’effetto della terapia su grossi numeri di pazienti e per
periodi di tempo protratti, vale anche in questo caso il suggerimento di
scegliere la terapia in base alla situazione clinica di ciascun paziente. Un
paziente ad esempio con elevati titoli di anticorpi anti-fosfolipidi ed un
evento trombotico precedente e clinicamente grave è verosimilmente candidato ad
una terapia più aggressiva rispetto ad un paziente con bassi titoli di
anticorpi ed il cui evento trombotico precedente è stato di live entità clinica
oppure è avvenuto in chiara concomitanza con un altro fattore di rischio (ad
esempio una tromboflebite durante una prolungata immobilizzazione).
La mancanza di conclusioni definite è solo apparente,
perché ogni Medico è ora in grado di scegliere il trattamento sulla base delle
attuali informazioni ed in ogni caso con maggiore logica rispetto a soli pochi
anni fa.
Un’altra domanda molto importante e molto frequente è: se sono positivo/a per anti-fosfolipidi, ma sono sempre stato/a bene, cosa posso o devo fare per evitare le manifestazioni della sindrome? Devo prendere gli stessi farmaci che prendono i pazienti che hanno già avuto un episodio trombotico?
Vi è accordo nel ritenere che una positività per anticorpi
anti-fosfolipidi chiara (titolo medio/elevato e persistente nel tempo) in
mancanza di eventi trombotici debba essere trattata solo in alcuni casi. Ad
esempio la presenza degli anticorpi in un paziente con una malattia autoimmune
sistemica (ad esempio il lupus eritematoso sistemico) è un fattore di rischio
che si aggiunge a quello proprio della malattia di base e come tale
potenzialmente pericoloso. Attualmente si ritiene consigliabile almeno una
protezione nei confronti di possibili eventi trombotici arteriosi con basse
dosi di aspirina o con idrossiclorochina (antimalarici). Non esistono al
momento studi che indichino in modo chiaro la necessità di trattare gli altri
pazienti. A giustificazione di questa posizione di cautela viene valutato come
al solito il rapporto tra il rischio di eventi trombotici e quello di effetti
collaterali della eventuale terapia. E’ evidente che la presenza di altri
fattori di rischio concomitanti suggerirà al Medico la necessità o meno di una
terapia.
Risposte più precise saranno comunque a disposizione tra
breve, dal momento che numerosi gruppi hanno iniziato studi finalizzati proprio
a valutare il miglior comportamento da tenere in queste circostanze.