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© Király Martina


I Kafka e gli Svevo,

ovvero capitoli nella letteratura della Monarchia

di

Király Martina

(1994)

 

 

Stato d’animo, paese per genii

Robert Musil, lo scrittore austriaco autore di uno dei romanzi più citati della letteratura monarchica, "l’uomo senza qualità", amava definirsi un austro-ungherese meno l’ungherese, il risultato, cioè, di una sottrazione. Non era però l’unico a dover ricorrere a più radici per quanto riguardava le proprie origini. Arthur Schnitzler, lo scrittore più austriaco secondo Thomas Mann, era il nipote di un falegname ebreo di Nagykanizsa; il praghese Franz Kafka invece si sarebbe facilmente riconosciuto nelle parole di un altro illustre personaggio della Monarchia, Gustav Mahler, il quale, direttore dell’Opera di Vienna dichiarò di sentirsi senza radici per tre volte: in quanto nativo della Boemia in Austria, come austriaco fra i tedeschi ed essendo ebreo in tutto il mondo. Joseph Roth, che nella "Marcia di Radetzky" tracciò uno dei ritratti più completi sull’Impero arrivò a Vienna da uno sperduto paesino della Galizia, figlio di ebrei tutt’altro che abbienti. Hugo von Hoffmannsthal invece, il poeta cantore della vecchia Vienna nacque da padre ebreo-ceco e madre lombarda.

Gli anni d’oro della cultura austriaca, a cavallo fra il 1867 e il 1918, vedono un’Austria in perenne conflitto fra centralismo e federalismo. I dati registrati nel l900 riportano 26 milioni di abitanti, suddivisi in undici etnie di cui, esclusi gli ungheresi, il 35,8% sono tedeschi, il 32,2% cechi, il 16,6% polacchi, il 13,2% ruteni, il 4,6% sloveni, il 2,8% italiani ed il 2,8% serbi e croati. È il periodo contraddistinto dalla perdita della battaglia di Königgraetz che finirà con il delitto di Sarajevo, segnando la fine di un territorio geopolitico che invece di unire sotto le proprie ali undici popoli differenti in cultura e livello economico realizzò soltanto un rapporto gerarchico con essi, caratterizzato dal termine "l’Austria e i domini ereditari".

Un impero che Musil chiama "Kakania" dalle iniziali del "kaiserlich und königlich" tedesco. "Per iscritto il nome dello Stato era: Monarchia Austro-ungarica. Chi ne parlava però diceva soltanto: Austria, chiamandola cioè con il nome cui rinunciò con un giuramento reale solenne. [...] Secondo la costituzione lo Stato era liberale, governato però con spirito clericale. Il governo era di spirito clericale, la vita era di spirito libertario. Ogni cittadino era uguale davanti alla legge, ma non tutti rientravano nella categoria di cittadino. C’era anche un parlamento, ma fece uso tale della propria libertà da rimanere per la maggior parte del tempo chiuso. [...] In questo paese si fece continuamente il contrario di ciò che si pensava, oppure si pensò il contrario di ciò che si fece. [...] Sì, nonostante all’apparenza ci sia stato tanto a contraddirlo, Kakania dovette pur essere un paese per genii, e fu probabilmente questa la sua rovina".

Un paese per genii, spalleggiato peraltro da un esercito descritto accuratamente nella "Marcia di Radetzky", che riunì i figli delle diverse etnie viventi sul territorio imperiale. L’esercito costituì l’opportunità di carriera per excellence insieme all’armata di burocrati. La burocrazia imperiale, o "burocretinismo", come la ridefinì il critico viennese Karl Kraus é, come nel caso della letteratura russa, fra i bersagli preferiti della letteratura austriaca sia in chiave satirica come negli aneddoti dello stesso Kraus che in tono visionario come nelle opere kafkiane. "Non vorrei perdermi nella descrizione di quanto sia potente il nostro presidente" scrive l’impiegato Franz Kafka alla fidanzata "ma puoi credermi: è un uomo molto importante, che nell’immaginazione degli impiegati ordinari non cammina per terra, bensì fra le nuvole. E non avendo di solito l’opportunità di conversare con l’imperatore gli impiegati, se incontrano il brav’uomo, s’immaginano di trovarsi di fronte all’imperatore". L’imperatore il quale dando l’esempio, è il primo burocrate dell’Impero, trascorre alla sua scrivania dell’Hofburg dodici - quattordici ore al giorno. L’imperatore, il cui sostegno principale fu proprio l’esercito nero-giallo, ottocentomila soldati, un corpo d’ufficiali privilegiato. Nonostante la multietnicità l’armata fu l’ambiente dove la propaganda austriaca si diffuse con più successo, la figura del generale e dell’ufficiale imperiale divennero presto figure chiave della tipologia monarchica. Franz Kafka nel Diario riferisce un episodio accaduto durante un viaggio in treno. Lo scrittore si trova nello stesso scompartimento con due ufficiali dell’esercito asburgico. I tre cominciano una curiosa conversazione: "... dopo le prime parole viene a galla che sono di Praga. Sarei quindi ceco? No. Caspita, prova a spiegare ai fedeli occhi tedeschi di soldato chi sei tu! C’è chi dice: "tedesco nato in Boemia", altri invece: "di Mala Strana". Piano piano si placa la faccenda, ma il generale non è contento: dopo pranzo lo assalgono i dubbi rispetto alla germanicità della mia pronunzia, ma forse non sono le orecchie bensì gli occhi a non crederci. A questo punto potrei cercare di spiegarla con il fatto che sono ebreo. Dal punto di vista scientifico il generale è soddisfatto, dal punto di vista umano invece non lo è".

Ed ecco che ritorna la questione dell’identità. La grande cultura appartenente al quarto di secolo che precedette la prima guerra mondiale è per sé una cultura che, assieme ai suoi autori, va in cerca di una propria identità. È così a Vienna ed è così, come vedremo poi, pur fra circostanze diverse, a Trieste. Si parte dalla premessa, pronunciata, secondo la leggenda, dall’editore viennese di Freud, che l’Austria non è altro che uno stato d’animo, e come tale indefinibile. Un pensiero rafforzato dalla difficoltà di definire la letteratura austriaca che, come si è visto dagli esempi dei vari Kafka, Musil, Schnitzler e Roth, contò, almeno quanto sulla tradizione tedesca, su basi ebraico-slave. Nonostante il processo di alienazione dalla letteratura tedesca fosse iniziato verso la metà del 19° secolo e nonostante l’affermazione del critico Hermann Bahr secondo il quale "non necessariamente sono tedeschi coloro che parlano tedesco", ed è il caso di Kafka, l’autonomia della letteratura austriaca comincia a delinearsi solo ai tempi della guerra fra Maria Teresa e Federico il Grande, quindi negli anni che precedettero l’annessione all’impero Romano-Germanico, in contemporanea con le radici del conflitto fra il protestantesimo prussiano e il cattolicesimo austriaco. Ma si dovrà aspettare la generazione di scrittori che nell’opinione letteraria odierna è identificata con la letteratura austriaca per parlare di una cultura autonoma, indipendente.

 

Trieste, crogiolo di razze

Abbiamo visto come nel caso di Vienna e dell’Austria la cultura sia legata al fattore della lingua, ricordiamo lo stesso Kafka, scrittore "austriaco" che non si mosse quasi mai da Praga, Trieste sarà la città monarchica che subirà il fascino dell’Austria senza diventarne parte integrante, una città il cui destino culturale sarà inseparabile dalle condizioni geopolitiche in cui è situata.

L’ascesa della città inizia con la dichiarazione, nel 1719, del portofranco. Successivamente, con l’arrivo di etnie diverse dal territorio e all’infuori della Monarchia, greci, slavi, ebrei, levantini, la faccia di Trieste cambia notevolmente. Durante il periodo teresino il destino di Trieste si troverà ad essere legato alle sorti dell’Austria più che mai in quanto punto chiave dello sviluppo politico-economico del retroterra danubiano. Legame, questo, che verso gli ultimi giorni della Monarchia diventerà particolarmente sofferto. Il successore di Maria Teresa, Giuseppe II porterà anche a Trieste la pressione livellatrice dell’apparato burocratico statale. Il germanismo centralistico e burocratico giuseppino significherà un più marcato influsso tedesco nella vita pubblica e nelle istituzioni economiche della città. Il tedesco diventerà, con il passare degli anni, lingua conosciuta negli ambienti mercantili, finanziari, professionali e in genere fra le persone colte. Le scuole tedesche, grazie alle prospettive professionali garantite dalla conoscenza della lingua in tutto il territorio asburgico, contribuiscono a diffondere in tutta la città la cultura tedesca. L’immigrazione tedesca, estremamente composita in quanto proveniente dalla Germania e dalle diverse province dell’Impero porterà, assieme a protestanti e cattolici, quella componente ebraica che sarà il "lievito" oltre che della vita economica e civile, anche dell’attività culturale di Trieste. Trieste presenta quindi, come uno spaccato della Monarchia, la stessa ricchezza multietnica dell’Impero, conservando però gli elementi mediterranei dovuti alla natura di porto della città. Prendiamo l’esempio del signor Aghios, protagonista di un racconto di Svevo, "Corto viaggio sentimentale", che durante un viaggio in treno da Milano a Trieste si trova a chiacchierare con il suo vicino. I due, per prima cosa chiariscono le proprie origini.

"Il Borlini si stupì nel sentire il nome dell’Aghios.

- Greco ?

- D’origine, ma lontana.

Era da lungo tempo che l’Aghios non pensava al suo nome greco, perché chi lo conosceva accettava quel nome come se fosse stato italiano. Certo nella sua vita, causa quel nome, spesso egli aveva rovistato nel proprio animo curioso di scoprirvi qualche cosa del più geniale dei popoli. Tante volte aveva analizzato qualche propria parola per vedere se poteva considerarla arrivata da paesi lontani e tante volte aveva accarezzato una propria idea come sorprendente, nata in un cervello atteggiato altrimenti dai cervelli dei suoi vicini. [...] Rapido il pensiero del vecchio si ripiegò su se stesso. Subito egli dovette ridere. Somigliava egli a Dante o a Omero? In complesso non c’era niente da perdere scegliendo una nazione o l’altra. Nulla da guadagnare mettendosi di qua o di là. Eppoi quanti italiani non erano greci senza saperlo?"

Dopo il 1848, come testimonia il brano di Svevo, essere greci, ebrei o mitteleuropei a Trieste significa essenzialmente una cosa: appartenere alla causa, alla lingua italiana, continuamente in contrasto con l’elemento sloveno. L’italiano, infatti, aveva compiuto ciò che, in mancanza di consistenza demografica e contiguità territoriale non era riuscito alla spinta germanizzatrice. E così, seppur parte di un impero dal punto di vista geopolitico, come abbiamo già detto, Trieste non vi apparterrà mai culturalmente. Subirà l’influenza della cultura austriaca, l’architettura viennese e il freudismo passeranno per la punta adriatica della Monarchia, ma la città si troverà a crearsi, come è già accaduto a Vienna, una cultura autonoma. Stuparich, parlando della fortunata posizione della città, la chiama una "fusione di civiltà, di Sud e di Nord, d’Occidente e d’Oriente": sono proprio queste qualità che daranno, sempre secondo le splendide parole di Stuparich, "l’inquieto riflesso azzurro-marino che è nell’animo triestino".

 

"Trieste non ha tradizioni di coltura"

La multinazionalità della città va quindi ricondotta alla dimensione dell’incontro tra culture diverse in un ambiente che è però essenzialmente italiano, mentre è sempre più evidente la scissione dall’elemento sloveno della città. È interessante, come fanno notare Ara e Magris, come il crescente interesse verso la letteratura di tradizioni slave ed ebraico-slave ignori completamente la nascente cultura slovena che pur ne faceva parte. La fisionomia particolare della posizione geografica e culturale della città fanno di Trieste quel filtro di mediazione attraverso il quale penetra in Italia la cultura mitteleuropea di lingua tedesca. E questo filtro che porterà tanti giovani, fra cui lo stesso Stuparich, studente universitario a Praga e grande sostenitore dell’Austria come di una più grande Svizzera, "base per una federazione di tutti i popoli europei", a perfezionarsi nei migliori istituti della Monarchia, ed è ciò che farà di Schopenhauer lo spirito guida di Svevo e di un triestino, Alberto Spaini, uno dei primissimi traduttori ed interpreti di Kafka.

"Trieste non ha tradizioni di coltura", sono parole di Scipio Slataper, autore della confessione sulla triestinità che è "Il mio Carso". Parole arrabbiate, appartenenti alla generazione successiva ai Saba, agli Svevo, forse un po’ affrettate e ribelli. Parole che però sintetizzano alla perfezione il caso della città che dal punto di vista letterario dovette senz’altro essere "inventata" dai suoi scrittori. La confluenza plurinazionale, dettata dalle condizioni della città aveva, per contraddire e allo stesso tempo dar credito a quanto pronunciato dallo Slataper, le sue tradizioni di cultura, ma non aveva una sua cultura, non aveva soprattutto una sua letteratura. Sino alla fine dell’Ottocento Trieste era letteralmente una periferia, gli scrittori ottocenteschi furono epigoni di quelli italiani, e ciò che ne risultò fu una letteratura italiana minore, mancante di qualsiasi specifico carattere triestino, e per di più in ritardo rispetto al retroterra. Caratteristiche sicuramente dettate dal periodo storico: non dimentichiamo che il 1848 segna il risveglio in tutta la Monarchia, del sentimento patriottico-nazionale. Per quanto riguarda gli italiani d’Austria la situazione è aggravata dal senso d’isolamento dovuto all’allontanamento dal Veneto, staccatosi ormai definitivamente dai domini asburgici e unito all’Italia nel 1866: si rompe così il vincolo culturale con il mondo italiano rappresentato dall’Università di Padova.

Si crea così, in bilico fra la vecchia Austria, di cui non ha mai fatto linguisticamente parte e l’Italia, a cui si sente legato da mille vincoli ma di cui riesce soltanto ad essere l’epigone, un’identità di frontiera, un senso di vuoto. La letteratura triestina, come ha osservato Bruno Maier, nasce proprio da questo vuoto e trarrà la propria grandezza fondatrice dallo sforzo di edificare dal nulla.

"Io non credo a una città che non abbia una sua cultura" dirà poi Umberto Saba. "Sono sempre parole campate per aria". Parole che non si addiranno a Trieste che, come sentenzia lo Stuparich "carica di destino [...], volta le spalle ad una cultura tradizionalmente umanistica, lascia fare agli altri quello per cui non è fatta, ma ha in sé la possibilità di una cultura nuova, moderna, d’una cultura che sarà viva nell’Europa di domani. [...] Lo spirito italiano nel farsi europeo dovrà passare ancora una volta per di qua".

 

Apollo e Mercurio, tra spirito ed interesse

Nel corso dell’Ottocento, pur in mezzo a tante presenze culturali e soprattutto a quella particolarmente viva ed intensa della cultura tedesca, la città si dà una fisionomia nazionale precisa, con una maggioranza italiana ed una minoranza slovena. Nello stesso tempo però ha un’immagine "internazionale" che le deriva da un nuovo ceto dirigente, una borghesia mercantile e poi anche finanziaria e, sia pure su scala minore, imprenditoriale che è cosmopolita non solo per la varietà delle sue origini, ma anche e soprattutto per il respiro delle attività che intraprende e per la visione che essa ha del ruolo e della funzione di Trieste. La città occupa un posto centrale nel sistema economico della Monarchia, cosicché il "filtro di mediazione", "la porta attraverso la quale penetra in Italia la cultura mitteleuropea" è allo stesso tempo la "proiezione sul mare di tutta la Monarchia", il "polmone dell’Austria".

Sin dall’istituzione del portofranco una parte considerevole della prosperità di Trieste è dovuta all’interesse che lo Stato ha allo sviluppo della città se non assistita, perlomeno incentivata. Sorgono i due colossi assicuratori del "centro commerciale gesamstaatlich che però ha saputo darsi un’immagine italiana", diventando d’importanza vitale nella vita finanziaria austriaca. Uno di essi, le Assicurazioni Generali, vedrà fra i suoi impiegati a Praga un certo Franz Kafka. La classe mercantile è ormai diventata il ceto dirigente, si evolve e si rinnova continuamente in una città, secondo le parole di Ara e Magris "che non conosce privilegi e gerarchie tradizionali e non ne ha ancora costruiti di nuovi". Una città borghese, "forse la più autenticamente borghese di tutta l’Austria-Ungheria" come la descrive nel suo diario Elio Schmitz, fratello di Svevo, "anche per la pressoché totale assenza in loco di quella nobiltà storica la cui presenza condiziona e caratterizza la vita politica e civile di tutti i territori austriaci".

Una città lacerata tra Italia ed Austria, divisa, tra "spirito ed interesse", tra "Apollo e Mercurio", una città che vive l’essere borghese come un destino, come l’essere tout court. Vi è un certo senso d’insofferenza che accompagna lo spirito economico-commerciale di Trieste, verso il Dio Mercurio, "al di sopra di tutti gli altri dei" come scrive Elio Schmitz.

Più tardi Scipio Slataper parlerà di città nevrotica, e come tale a pieno diritto parte della Monarchia, "nevrotica per la duplicità della sua anima, commerciale ed italiana, e per questo composta di tragedie". Nel caso di Trieste è il ritmo della città che non lascia respirare l’animo da intellettuale nascosto dietro il borghese, il medico, il commercialista o l’impiegato, che come vedremo, daranno gli scrittori più brillanti alla storia moderna della letteratura mitteleuropea.

"In un molino c’era, oltre all’asino che menava la ruota, un pappagallo che sapeva dire poveretto e il nome del padrone e tante altre cose. S’ammalarono ambedue e venne il medico.

È per me!, disse il pappagallo. Si curano di me perché ho delle piume belle.

-Ma no!, rispose l’asino., Il medico è stato chiamato per me, perché son io che meno la ruota.

-Ma io so dire poveretto

-Ma io meno la ruota.

-Ma io saluto il padrone quando passa

-Ma io meno la ruota.

Il medico curò l’asino e lasciò crepare il pappagallo.

È fatto così il mondo ed è da meravigliarsi che il grigio della pelle dell’asino non ricopra tutta la terra e non scompaiano del tutto le vaghe piume colorate".

Così scriveva, in una favoletta dal tono più amaro che dolce e dalla morale chiara Italo Svevo, ovvero Ettore Schmitz, scrittore, impiegato di banca, borghese e triestino.

 

Origini ed identità

Hermann Broch, scrittore austriaco, in un saggio sul poeta-scrittore Hugo von Hoffmannsthal suo contemporaneo e connazionale ricostruisce l’ascesa, attraverso tre generazioni, di una tipica famiglia ebrea della Monarchia. L’antenato, che si chiama ancora Isaak Löw Hoffmann, emigra nel 1788 da Praga a Vienna. Nell’arco di tre decenni salirà nell’élite viennese, ricevendo il titolo nobiliare dall’imperatore Francesco I e divenuto "Edler von Hoffmannsthal" sarà fra i fondatori e fra i membri più ferventi della confraternita israelita di Vienna. A "completare il processo d’imborghesimento" come dice Boch ci penserà il nipote di Isaak, Hugo, per metà cristiano, che esercita la modesta, secondo i canoni paterni, professione dell’avvocato, rientrando così a pieno diritto nell’archetipo del borghese viennese. Suo figlio Hugo junior nascerà invece un "piccolo genio", contraddicendo le aspettative di una famiglia il cui destino sembrava definitivamente consacrato.

La "saga" dei von Hoffmannsthal sembra significante per due motivi: primo, perché rappresenta la trasformazione radicale di una famiglia, lo stacco da un livello di vita inferiore. Secondo, perché un successivo strappo alle regole sarà dato dal rampollo che, con la medesima insistenza, decide di rompere i contatti con l’esistenza borghese per l’attività intellettuale.

Il "processo d’assimilazione", dell’imborghesimento è preceduto da un esodo in massa degli ebrei delle regioni meno sviluppate della Monarchia quali la Galizia o la Moravia verso il "polso" dell’impero ovvero Vienna, oppure, nel caso delle famiglie Kafka e Schmitz, verso Praga e Trieste. Joseph Roth descrive accuratamente il "viaggio della speranza" e l’ostilità degli ebrei benestanti verso gli "ostjuden" ovvero i fratelli venuti dall’Est. "Ebrei pellegrini" di Roth é interamente dedicato al fenomeno, di cui parla anche Broch nel volume già menzionato: "Gli ebrei si mossero quasi esclusivamente per ragioni economiche, provenienti dalle comunità-ghetto della parte orientale della Monarchia. Ispirati dal magnetismo di città dal capitalismo fiorente, coltivavano un po’ tutti il sogno di diventare dei nuovi Rotschild".

La storia dei Kafka e degli Schmitz é simile alla cronaca familiare degli Hoffmannsthal, anche perché lo spostamento degli ebrei e la successiva trasformazione borghese erano una conseguenza naturale degli editti giuseppini sulla tolleranza razziale. Così Abramo Adolfo Schmitz, nonno di Ettore, si trasferì "da Kopchen, in Ungheria" come annotano i discendenti, "a Treviso". Secondo Italo Svevo era un "funzionario imperiale", dunque della generazione di "emancipati che la libertà del potere politico dopo Giuseppe li volle impiegati nella burocrazia imperiale". Nonostante la posizione sociale, il figlio tredicenne di Abramo, Francesco é costretto a vendere chincaglierie di pelle "per guadagnarsi da vivere". Non avendo più da mangiare, mio nonno lo mandò via" informa Elio Schmitz, "e mio padre [...] se ne andò di paese in paese a fare il mercante girovago". Identica sorte toccò a Hermann Kafka, proveniente da un minuscolo paesino ceco, Wohsek, venditore ambulante ad appena quattordici anni. La tenacia e l’intraprendenza saranno premiate: all’epoca della nascita di Franz, nel 1883, Hermann é fra i personaggi più stimati della borghesia praghese, proprietario di un prosperante negozio di abbigliamento. Francesco Schmitz, dopo l’episodio del 1848 che lo vede, secondo il leggendario di famiglia, alle prese con l’esercito imperiale schierato con gli ungheresi e dopo una parentesi come impiegato, inizia a Trieste la sua "parabola ascendente" fondando nel 1861, anno di nascita di Ettore una società di commercio, la Schmitz & C.

I giovani Kafka e Schmitz per volere dei padri frequenteranno scuole tedesche. Per Franz si tratterà del liceo tedesco di Praga, Ettore invece partirà alla volta di Segnitz presso Würzburg, "rinomata scuola commerciale frequentata in prevalenza da giovani israeliti di ricca famiglia". Per entrambi l’impatto con la cultura di lingua tedesca sarà fondamentale. Per Ettore il periodo sarà contraddistinto dalla scoperta del filosofo Arthur Schopenhauer, un amore letterario destinato a durare una vita. Franz invece, oltre all’incontro con le opere di Grillparzer e Kleist, vedrà l’inizio della "duplice esistenza", dell’essere ebreo-tedesco nella capitale ceca, condizione peraltro condivisa da altri due grandi contemporanei della letteratura praghese quali Franz Werfel e Rainer Maria Rilke.

Fu l’autorità paterna che porterà i due giovani a proseguire gli studi in direzione opposta rispetto ai loro talenti. "Voi dovete studiare molto, diventare bravi giovani per potermi un giorno aiutare nei miei affari e fare una bella figura" dice Francesco Schmitz ai figli maschi. Nonostante l’interesse e l’amore per la letteratura che lo porterebbero di conseguenza a perfezionarsi a Firenze, Ettore si troverà di fronte al divieto paterno. "La letteratura era una cosa lontanissima dalla mentalità del vecchio Schmitz" riferisce Ghidetti. "Ettore, nonostante la sua ardente vocazione di scrittore, non aveva in sé la forza di opporsi alla volontà del padre, che reggeva con ferma autorità la famiglia ...". Nel caso di Franz il diploma in giurisprudenza si presenta agli occhi del padre come la garanzia di una eventuale ascesa sociale. Per il commerciante di origine ebrea salire nei ceti alti della burocrazia significa portare a termine il processo d’assimilazione, ovvero vedere la propria posizione assicurata. Franz, interrotti gli studi da germanista diventerà avvocato per volere del padre. Ettore frequenterà a Trieste l’Istituto Superiore Commerciale, assumendo contemporaneamente, dopo due anni di studio, anche il lavoro di impiegato alla Banca Union della sua città.

Prima di analizzare che cosa abbia significato nella vita dei due uomini il peso della decisione paterna torniamo alle figure dei padri. È esemplare quanto l’influenza di Hermann Kafka e di Francesco Schmitz abbiano inciso sul destino dei loro figli e sulle opere degli scrittori Kafka e Svevo. Svevo, che affermò di aver scritto un solo romanzo in tutta la vita non negò di essersi ispirato alla figura del "vecchio Schmitz" nell’episodio della morte del padre di Zeno nella "Coscienza". Il capitolo é uno dei momenti più toccanti del libro, nonché una delle scene-chiave dell’autoanalisi di Zeno. "Fino alla sua morte io non vissi per mio padre [...]" comincia il brano. "Egli fu il primo a diffidare della mia energia e, a me sembra, troppo presto [...] "Un rapporto basato sull’incomprensione, mancante del legame intellettuale. Un rapporto ambiguo, in cui il padre confessa che il figlio é fra i motivi che più lo innervosiscono. Eppure l’affetto riemerge all’improvviso: "Come avrei fatto a fargli sapere che l’amavo tanto?" si domanda Zeno rimasto solo con il moribondo. Il vecchio padre muore pochi minuti dopo lasciando al figlio, oltre al peso della dichiarazione d’amore mancata, anche i "dubbi", le "rane" sulla propria inettitudine, sulle proprie capacità. "Piangevo perché perdevo il padre per cui ero sempre vissuto. Non importava che gli avessi tenuto poca compagnia. I miei sforzi per diventare migliore non erano stati fatti per dare soddisfazione a lui? Il successo cui anelavo doveva bensì essere anche il mio vanto verso di lui che di me aveva sempre dubitato, ma anche la sua consolazione. Ed ora invece egli non poteva più aspettarmi e se ne andava convinto della mia insanabile debolezza. Le mie lacrime erano amarissime". Il padre come punto di riferimento, nel bene o nel male, dunque. Ghidetti afferma addirittura che "il rifiuto del patronimico nel caso di Svevo significa [...] il rifiuto dell’immagine autoritaria di Francesco Schmitz, il padre che non ha saputo comprendere ed alla cui volontà Ettore si é sempre dovuto piegare ...".

Se il rapporto tra padre e figlio nella "Coscienza di Zeno" é ispirato alla vita di Ettore Schmitz, "l’immagine autoritaria" di Kafka-padre è direttamente documentata nel racconto "Lettera al padre". La lettera non é altro che un vero e proprio monologo, un’accusa, equivalente ad una seduta di psicoanalisi. Fu scritta davvero, ma la sorella di Kafka, Ottla, sconsigliò allo scrittore di farla leggere al genitore. Le opere di Kafka si prestano sin troppo facilmente all’analisi psicologica, e c’è chi trova tracce di un complesso d’Edipo nella Lettera. La verità potrebbe essere più semplice: basti pensare ad un figlio nato con la propensione, con il genio della letteratura, o comunque con una spiritualità del tutto diversa da quella del padre, in una famiglia in cui non vi erano precedenti intellettuali. Oltre allo spirito, Franz é diverso da Hermann anche nel fisico: fragile e malaticcio sin dall’infanzia, è l’opposto del robusto padre. I commenti più amari nel Diario di Kafka sono quelli riguardanti proprio la figura paterna. "Papà mi rinfaccia continuamente lo stato di miseria della propria infanzia", scrive.

Non dimentichiamo che il destino di Kafka, come del resto quello di Svevo, era strettamente legato alle aspettative della famiglia; un vincolo reso ancora più stretto dal fatto che Kafka era l’unico figlio maschio, attorniato da tre sorelle. Ecco spiegato il misto di ira, gelosia e sospetto del padre verso un figlio che non partecipò affatto alla vita della famiglia, non ebbe alcun tipo di dialogo con i parenti ad eccezione dell’amatissima sorella Ottla, visse come un recluso in casa, confinato nella solitudine della sua stanza. "Il contatto con i componenti della mia famiglia mi disgusta" si legge nel Diario. "L’altro ieri mi hai chiesto perché mai avessi paura di te" comincia la Lettera, "Tu vedi la situazione pressappoco così: hai svolto un lavoro faticoso per tutta la vita, sacrificandoti per i figli, soprattutto per me, così ché la mia vita diventasse spensierata. Ho potuto studiare in libertà, senza dovermi mantenere, senza alcun problema. Tu non ti aspettavi di essere ringraziato, conosci bene la "riconoscenza dei figli", ma avresti apprezzato qualche segno di simpatia. Invece io, sin dagli inizi mi nascondevo da te, nella mia camera, in mezzo ai libri, cercando riparo nella compagnia di amici folli e di idee pompose. Non ho mai parlato apertamente con te, non ti ho mai seguito in chiesa, non ti ho visitato a Franzensbad e non ho mai nutrito alcun sentimento verso la famiglia, non mi sono mai interessato al negozio e ai tuoi affari ... ciò che accetto delle tue teorie è l’essere convinto, come lo sei tu, della tua innocenza nella nostra reciproca alienazione".

È difficile scegliere un solo passo della "Lettera al padre", é talmente intensa, struggente nei minimi particolari. È forse il brano letterario che più si avvicina al già citato Diario di Franz Kafka, un documento che sorprende, a parte che per le confessioni dello scrittore, per la straordinaria bellezza del testo. "L’amore significa che sei tu la lama con cui mi frugo dentro "scrive riferendosi all’ultima donna della sua vita. Lo stile spoglio e puritano dei racconti o delle opere "ufficiali" non ci hanno abituati ad un Kafka così poetico, la cui bravura di scrittore emerge quindi a sorpresa. Non che avesse problemi simili allo Svevo, la cui capacità di letterato fu addirittura messa in discussione. Gli accusatori sostenevano che l’autore di "Senilità" e di "Una vita" fosse eccessivamente influenzato dalla lingua tedesca, cosicché il suo italiano risultasse stentato. All’opinione di certa critica si aggiungeva il parere generale della Trieste borghese, che considerava il signor Schmitz un bravo industriale, un uomo colto che, alla pari con la passione per il violino, coltivava quella per la scrittura. Una delle amarezze più profonde per Svevo-Schmitz, che sicuramente contribuì alla sua incapacità di riscattarsi dalla trappola dell’esistenza borghese.

Prima di passare al capitolo centrale della vita dei due scrittori, vale a dire alla condizione di borghese, una parola a parte meritano gli amici-mentori di Kafka e Svevo. Sappiamo del trauma subito da Italo Svevo dopo l’insuccesso di "Una vita" e "Senilità"; insuccesso che lo indusse a far passare venticinque anni fra la pubblicazione di quest’ultimo romanzo e "La coscienza di Zeno". Conosciamo già l’opinione dei circoli letterari di Trieste rispetto alle capacità di Svevo scrittore; il rifiuto da parte di pubblico e critica fu un duro colpo per l’insicuro Ettore. Il primo a riscattarlo dai propri dubbi fu James Joyce, scrittore irlandese arrivato a Trieste per insegnare l’inglese. "Ma lei è uno scrittore", esclamò dopo aver letto "Una vita", che il suo studente gli affidò timidamente. Fu l’inizio di una grande amicizia, di cui "Ulysses" è un tributo: il protagonista, Bloom, è probabilmente il ritratto dell’uomo mitteleuropeo, Ettore Schmitz.

La sorte di scrittore é ciò che unì Franz Kafka all’amico Max Brod: i due si conobbero sin dall’infanzia, ebbero radici etniche e culturali identiche e passarono intere serate a discutere di letteratura. Brod fu fra i primi a riconoscere il genio di Kafka, assumendosi il compito di rendere noto il talento dell’amico. I circoli letterari frequentati dai due giovani attrassero e respinsero Kafka allo stesso tempo: nonostante fosse diventato un membro riconosciuto della comunità di scrittori tedeschi di Praga, tanta attenzione non riuscì a sedurlo: era e rimase un severo critico delle proprie opere, concentrandosi soprattutto sull’atto dello scrivere. E prima di morire ordinò a Max Brod di bruciare tutto ciò che aveva scritto in vita sua. Brod, scrittore poco più che mediocre conobbe bene il valore dell’eredità kafkiana; si rifiutò quindi, saggiamente, di eseguire l’ultima volontà dell’amico e fece da tutore, per il resto della sua vita, a ciò che Franz Kafka ha lasciato al mondo.

"Praga non ci lascia andare. Nessuno di noi. Questa mammina ha gli artigli. Qui bisogna adeguarsi, oppure dovremmo darle fuoco partendo dalle due estremità, da Vysehrad e da Hradzin, così potremmo forse liberarcene". Parole dure verso la città dove Kafka trascorse la vita, la città dalla quale sognava di evadere. Una città per molti versi simile a Trieste, in cui l’etnia tedesca visse in un ghetto nazionale, linguistico e sociale, con l’aggiunta di quello religioso, nel caso degli ebrei.

Ci fu un momento nella vita di Svevo come in quella di Kafka, in cui entrambi guardarono a Vienna come ad una destinazione nuova che li riscattasse, nel caso di Svevo, dal provincialismo e dall’incomprensione culturale di Trieste, e nella mente di Kafka come alla metafora di una nuova vita. Ancora una volta, come era già accaduto per la cultura dell’Impero, due scrittori cercavano un ritrovo spirituale, una ventata d’aria nuova nella capitale. l’ammirazione del triestino per Vienna non cessò mai, "l’inetto" Kafka invece seppe di non potersi mai muovere "da Praga, dalla quale dovrei fuggire" verso "Vienna, che odio".

Gli scrittori triestini hanno sempre riservato parole calde alla loro città. Ed é anche vero che da Saba a Svevo, da Stuparich a Slataper le storie raccontate sono profondamente legate alla città, all’ambiente adriatico. Vi è quindi una sorta di tributo in queste pagine anche quando si afferma che "la bellissima Trieste è sempre stata e forse sarà sempre [...] una città nevrotica, e l’esservi nati non è solo e sempre un privilegio". [Umberto Saba, Le donne triestine] Sarebbe inesatto affermare che Kafka non abbia amato la sua Praga. Gli amici lo descrivono come un conoscitore profondo ed entusiasta delle bellezze e della storia della sua città. Anzi, particolare importante, imparò anche il ceco, fenomeno unico. Né Rilke, né Werfel parlavano la lingua, così come Svevo, Saba e l’intellighenzia triestina non si affrettarono ad apprendere lo sloveno. Un segno dell’inconsapevole saggezza e dell’imparzialità di Kafka. Praga non diventò mai lo scenario lo sfondo dei racconti o dei romanzi dello scrittore boemo, che mantenne sempre un tono astratto in questo campo. Eppure fu l’ambiente dove le opere nacquero, una città che Rilke definì, forse non a caso, "soffocante, afosa" e "triste, come poteva esserlo soltanto la vecchia Austria e l’angusta Praga".

In questa città vediamo Franz Kafka avviarsi giorno dopo giorno verso il palazzo delle Assicurazioni Generali: "... sono diventato impiegato in un istituto di assicurazioni. Ebbene, queste due professioni, la scrittura e il lavoro in ufficio, non riusciranno mai ad andare d’accordo. La più piccola fortuna nell’una diventerà sfortuna nell’altra. Se ho scritto qualcosa di buono la sera, il giorno dopo mi brucio nell’ufficio senza combinare nulla. Questo andare e venire diventa sempre peggio. Faccio il mio dovere esterno nell’ufficio senza portare a termine quello interno, e il dovere interiore incompiuto si tramuta in sfortuna, impossibile da rimuovere". Un brano che spiega, oltre al metodo seguito dallo "scrittore della domenica", come fu apostrofato Svevo, anche lo strazio causato dalla duplice identità dello scrittore-borghese. Una condizione, ancora una volta, condivisa da tanti scrittori della Monarchia. È il caso di parlare della nascita di un vero e proprio tipo, oltre a Kafka e a Svevo gli esempi sono autorevoli. Arthur Schnitzler faceva il medico, Robert Musil era laureato a pieni voti in ingegneria, Umberto Saba aveva una minuscola libreria. Chi riuscì ad accostare la professione "interiore" con quella "esteriore" con più successo fu forse Joseph Roth, giornalista "nella vita" ed aspirante scrittore.

Le difficoltà pratiche tra la vita trascorsa in ufficio e l’attività intellettuale sono descritte in parte in "Una vita": ricordiamo Alfonso che, dopo la giornata da impiegato si trasforma in avido lettore nella biblioteca della sua città: come aveva fatto in precedenza Ettore Schmitz, il quale si rifugiava in compagnia di Machiavelli, Shakespeare e Goethe dopo il lavoro. In questo caso però la letteratura poteva rappresentare uno sfogo, una corazza che proteggesse dalla monotonia della vita da bancario. Nel caso di Kafka invece, che descrisse il processo dello scrivere, la nascita di un racconto come un tormento, l’inutilità e la noia delle Assicurazioni Generali e lo strazio della necessità di scrivere sono, insieme, un peso impossibile da reggere. È questo peso che aggraverà la sua fobia, o realtà, d’ipocondriaco. "Insomma: la vera attività intellettuale in un corpo e in una mente sana, non esiste", scrive. Tutto il contrario di Svevo, il quale affermava che fuori dalla penna non ci fosse salvezza, ma le vite dei due borghesi a questo punto avevano preso pieghe diverse. Se Kafka fece parte della borghesia praghese per diritto d’origine, è anche vero che non divenne mai conforme allo stile di vita e al ritmo dettato dalla sua classe sociale. "Io sono letteratura, nient’altro che letteratura", scrisse. Si ha l’impressione che Kafka abbia conosciuto il proprio caso meglio di chiunque altro. Non seppe mai adeguarsi, e non ebbe la forza fisica e spirituale di riscattarsi dalla propria condizione di uomo diviso fra la professione ed il lavoro, fra dimensione interna ed esterna. In un certo senso, senza gettar fango su Svevo, dimostrerà con l’ultimo atto, quello del lasciarsi uccidere da questa condizione, la sua purezza. Non seppe piegarsi, non seppe mentire a se stesso, ma se ne andò a testa alta, dimostrando di non essere un inetto. Stranamente, a Svevo successe il contrario. L’amabile bohemien diventò, con il tempo, un abile uomo d’affari. Il successo della fabbrica di vernici lo appaga, si inserisce, si adatta al decoro borghese in tutte le sue forme. Diventa il tipo d’uomo d’affari estremamente colto che è rappresentato, un altro esemplare caratteristico della Monarchia, nell’"Uomo senza qualità" di Musil, nella figura del milionario Peter Arnheim, una figura che incontriamo nei salotti descritti da Schnitzler, abile ed erudito conversatore che si tratti delle sinfonie di Beethoven o delle opere di Oskar Kokoschka. Una cultura esibita con leggerezza ma mai con frivolezza.

Il milionario Peter Arnheim è di origine ebrea, così come lo è Ettore Schmitz, ovvero Italo Svevo. "Certo, quella dell’ebreo non è una posizione comoda" disse Svevo negli ultimi anni a proposito di Franz Kafka, che aveva scoperto poco prima. La "filosofica indifferenza" in fatto di religione non impedì allo scrittore di veder chiaramente la propria appartenenza "ad una terza razza". Una razza che garantiva una posizione da "outsider": "È come se ci si trovasse sempre in viaggio. Si ha il pensiero più libero", dice il protagonista del "Corto viaggio sentimentale".

Sia Svevo che Kafka trattarono però tutto ciò che deriva dalla "condition juive" con una naturalezza esemplare. Non s’interessarono mai all’aspetto pratico della religione, anzi, Kafka si rifiutava di seguire la famiglia nella sinagoga in quanto lo considerava un atto meccanico e privo di significato. Ammirava la spontaneità e l’innocenza del teatro yiddish e s’interessò al sionismo senza diventarne un devoto seguace. Né Kafka né Svevo poterono però tirarsi fuori dall’esistenza di ebreo nell’epoca in cui l’Europa vedeva l’insorgere delle prime tensioni razziali. Cosa significava perciò essere ebrei in queste circostanze? "Conosciamo tutti un gran numero di ebrei occidentali, e per quanto ne sappia io sono il più occidentale fra questi ebrei", scrive Kafka. "Ciò significa che non ho mai ricevuto un solo momento in regalo, niente mi fu regalato, non soltanto il presente il futuro, ma neanche il passato, che è dato a tutti all’inizio. Be’ io ho dovuto procurarmi anche quello, e questa è forse la parte più difficile. Se la terra gira a destra, non so se lo faccia o meno, io dovrei girare a sinistra per rifarmi del passato. Non ho però la più minima forza per queste cose, non riesco a reggere il mondo sulle spalle, non riesco a reggere nemmeno il mio cappotto sulle spalle".

"-Prasive plemeno- [razza rognosa]: ho sentito qualche tempo fa questo termine a proposito degli ebrei. Non è forse naturale che uno voglia andarsene da dove lo odiano in questo modo? Non c’è bisogno del sionismo o del nazionalismo per farlo. L’eroismo nascosto nel voler rimanere a tutti i costi è quello dello scarafaggio che non si può sterminare dalla stanza da bagno".

Kafka scrive le frasi di sopra ben prima degli avvenimenti legati al nazismo. Parole dettate, ancora prima che dalla condizione d’ebreo, da una condizione più semplice e logica: quella di essere umano. "Non è la razza, ma la vita che fa l’ebreo", sintetizza Svevo. Una delle ragioni per cui lo scenario macabro e visionario delle opere kafkiane, dettato dall’impossibilità delle relazioni umane e dalla crudeltà insensata a cui l’uomo è soggetto per opera dei suoi simili non perderà mai d’attualità.

Siamo tutti uguali ma nessuno è simile a un altro. "Cos’è che mi accomuna agli ebrei?" si chiede Kafka. "Ma se non c’è quasi nulla che mi accomuni a me stesso, e dovrei mettermi da parte in un angolo, in silenzio, essendo riconoscente di poter respirare".

 

 

Fortwursteln; due "nevrotici consapevoli"

"Ho in me due malattie che m’impediscono di arrivare all’immediata rappresentazione di una cosa reale nella forma che gli altri sentono nella cosa stessa, ed a questa sono rassegnato forse perché innata [...]", annota Italo Svevo. "La seconda malattia però aggrava la prima. Io l’attribuisco al mio destino: ho un terrore della mia idea per cui mi è quasi impossibile di starle accanto lungo tempo. Faccio, rifaccio, ma, in sostanza nello svolgimento e persino nelle parole mi riproduco, perché non so ripensare intensamente". E ancora: "Io non sono buono di conquistare nulla. Io non voglio conquistare nulla. Io voglio avere e tenere senza sforzo. Altrimenti la vita diventa per me disaggradevole, piena di responsabilità e di minacce. Se non posso avere e tenere senza sforzo, io volentieri rinunzio, senza esitazione rinunzio".

Parole di Italo Svevo, "nevrotico consapevole", come si definì. Il senso di inferiorità, le "rane" come soleva chiamare i propri dubbi, l’ultima sigaretta mai fumata sono i motivi principali di quel tormento, il "mal di vivere dell’uomo contemporaneo" che lo scrittore non riuscì mai a scrollarsi di dosso. "Il mal di vivere dell’uomo contemporaneo" si manifesta, seppur in forme diverse, nella vita come nella letteratura: Musil, nell’"Uomo senza qualità" parla addirittura di una "misteriosa malattia dell’epoca". I personaggi del romanzo si trovano fuori posto, al massimo si annoiano, convinti di possedere un "talento che non ha nessun scopo". Arthur Schnitzler, in uno dei racconti più riusciti, dipinge l’esistenza di un medico viennese incapace di liberarsi dal demone del passato. Le poesie di George Trakl sono pervase dall’ossessione per la morte, mosaici differenti che restituiscono l’immagine di un’Austria occupata da una esistenza psicologica perlomeno non facile.

Che la causa sia stata l’atmosfera in cui la fine di un secolo e la fine dell’Austria coincisero? Non dimentichiamo che gli effetti di entrambi si protrassero ben oltre la prima guerra mondiale, e per alcuni, come per Joseph Roth, vedere il vecchio mondo disintegrarsi fu un vero e proprio choc. "Nascere in questi paesi voleva dire nascere con una eredità malferma da puntellare momento per momento", così parla Svevo del clima dell’impero asburgico al tramonto: "Non c’era un posto, uno solo dove riposare in contemplazione".

L’insicurezza, l’ansia, intesa come termine psicologico, o nel caso di Kafka gli incubi e un odio costante e sviscerato per la propria persona sono forse la radice comune dei due scrittori. Radici, tuttavia, che non possono essere separate dalle origini etniche e spirituali di Kafka e di Svevo. "Essere uomo è sentirsi inferiore", disse lo psicologo contemporaneo di Freud, Alfred Adler, riscoperto di recente anche in Ungheria. È vero. Ma è anche vero che le angosce di questi personaggi appartengono all’epoca in cui vissero almeno quanto alle loro origini, o condizioni familiari: cosa potrebbe meglio spiegare il senso d’inferiorità di un uomo insicuro, dalla salute precaria che non un padre grosso ed opprimente?

"Ho sempre visto i miei genitori come dei persecutori", confida Kafka al Diario, "ma fino all’anno scorso ero insensibile sia con loro che con il mondo intero, proprio come un pezzo di legno. Ma adesso so che era soltanto ansia, paura e tristezza. I genitori vogliono una cosa soltanto: trascinare i figli con sé, naturalmente solo per amore, e questa è la parte più orribile".

Ansia, paura, tristezza. Visioni e persecuzioni. Malattie che impediscono di fare. Inettezza. Esiste un termine tedesco, di solito riportato dai saggi che analizzano l’ultimo ventennio della Monarchia: "fortwursteln". Letteralmente significa: "tutto resta come prima" e diventò, secondo gli storici, il modo di fare della famosa, infame burocrazia austriaca. È il simbolo, la metafora dell’esistenza stessa dell’Impero, e ciò che vediamo nelle vite di Svevo, Kafka, ed altri "inetti" della Monarchia è un vero e proprio "fortwursteln" psicologico. "Adesso che son qui ad analizzarmi" scrive Svevo "sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente".

La fatidica ultima sigaretta può essere l’oggetto del "fortwursteln" personale sveviano. Una passione-ossessione tanto che un’ultima sigaretta lo scrittore l’ha fumata, poi: fu quella che si concesse nel letto d’ospedale, in seguito all’incidente automobilistico che fu la causa della sua morte: una morte causata in parte dal fumo stesso, come riporta la moglie Livia: "... il cuore avrebbe resistito. Furono i polmoni stanchi che non ressero".

Ogni data, ogni evento importante segnato quindi dall’ipotesi dell’ultima sigaretta. Il diario di Svevo è pieno di annotazioni del genere. Che si tratti del proprio matrimonio o del momento di morte della madre, l’occasione di smettere con il fumo e di cambiare una vita emerge pronta. Sì, perché l’ultima sigaretta non è soltanto lo strazio di un vizio che non se ne vuole andare: è il simbolo di tutto ciò che lo scrittore si prefigge e non riesce poi a portare a termine. È lo spettro dell’inettitudine.

All’indomani del matrimonio con la fidanzata Livia, Svevo si accende l’ennesima ultima sigaretta. La ragazza ha parecchi anni in meno, è di religione diversa, il fumo serve ad esorcizzare le paure, i dubbi, le "rane" che lo assalgono all’improvviso. "L’uomo pazzo, bestia, vecchio" come si apostrofa Svevo si sente ancora una volta pervaso dal senso di inferiorità nei confronti della famiglia di Livia, i Veneziani, e spera di essere riscattato da tutto ciò che ha sbagliato dalla "mente sana" della ragazza. Stessa cosa succede a Kafka, il quale è affetto, per tutta la vita, da fobie molto più feroci e misteriose di quelle di Svevo: se per il triestino è la immaginaria ultima sigaretta a segnare l’inizio di una possibile nuova vita, Kafka continua a rinviare la data del matrimonio con la stessa tenacia, credendo peraltro sempre meno alla possibilità di poter diventare un giorno un uomo normale.

La fidanzata Felice Bauer, una modesta impiegata tedesca di origine ebrea resterà al suo fianco, ma si fa per dire, per due anni: vedendosi poche volte, i due si scambieranno centinaia di lettere sofferte, contraddistinte, nel primo periodo, dal sentimento che Kafka scambia per amore. È invece l’entusiasmo di Franz, che vede nella ragazza, proprio come Svevo in Livia, la persona che potrà cambiarlo. "Hai tanto potere su di me" le scrive. "Non potresti trasformarmi in un uomo normale?"

Cos’è che impedisce a Kafka di vivere la vita di un uomo normale? "Ciò che mi ostacola può difficilmente chiamarsi realtà; è paura, paura della felicità, un’inclinazione e un ordine a torturarmi per una meta più elevata. La voce interiore mi conduce nel buio, la realtà invece mi porterebbe da te. Non c’è posto per alcun compromesso, e anche se ci provassimo, ne saremmo entrambi distrutti".

Le fobie di Kafka diventeranno, con gli anni, ipocondria. È difficile stabilire se questa sia stata all’inizio alimentata dallo scrittore stesso. Certamente sarà fra le cause della sua morte. Alla normalità Kafka non tornerà mai, anche perché è egli stesso ad allontanare ognuno da se stesso, dal "buco nero attorno al quale giro". Non diventerà mai padre di famiglia felice come Italo Svevo, la cui esistenza borghese è più che mai appagante, ricco di successi anche dal punto di vista del lavoro. È ciò che a Kafka non riuscirà mai, essendo la normalità, una moglie, dei figli, l’ancora di salvezza se appaiono in lontananza, ma appena si avvicinano, lo scrittore si sente come intrappolato. "Mi hanno legato come un delinquente" scrive in seguito al fidanzamento, sentendosi immediatamente incastrato. Il rapporto sessuale lo inorridisce, s’innamorerà veramente soltanto poche volte, anche se è misteriosamente attratto dalle prostitute, possibilmente un simbolo della "vita", dei "forti". Questa non é necessariamente un’aberrazione, è lo stesso meccanismo psicologico che lo porterà ad invidiare, essendo vegetariano per necessità, coloro che, con gusto, possono permettersi di mangiare ogni tipo di carne.

"Come potremo ottenere dai nostri figlioli il perdono di aver dato loro questa vita?" chiede Svevo nel racconto "Il vino generoso", lo stesso dove dice: "...della gioia resta il rimpianto ed è anche esso un dolore, ma un dolore che copre quello fondamentale, il vero dolore della vita".

Tanto dolore, tanti incubi avrebbero fatto la gioia del dottor Freud. Uno di questi incubi, in cui svegliandosi scoprì di essere diventato un enorme scarafaggio, diventerà il racconto forse più conosciuto di Kafka, "Metamorfosi".

"Ho un male dell’anima", confidò al Diario. "La malattia dei polmoni non è altro che un’estensione di questo". La preoccupazione morbosa per la propria salute fu, secondo le memorie della moglie Livia, una delle "rane" che più afflissero anche Svevo. Ma mentre nel suo caso è un problema legato e causato principalmente dall’ossessione per il fumo, Kafka, che si definì sin dall’inizio un "codardo nato", "inadatto alle relazioni umane", un insuccesso, insomma, sotto ogni punto di vista, vede nella malattia la giustificazione del suo fallimento come uomo e come persona. "Tu sei felice nell’infelicità" gli scrisse l’amico Max Brod, definizione che Kafka trovava particolarmente azzeccata. "Sono arrivato alla conclusione", si legge nel Diario, "che la forma di tubercolosi con cui sono stato onorato non è una malattia vera e propria, non è un morbo, ma soltanto la perseveranza del germe della morte".

"Ho deluso la mia città, la mia famiglia, la mia professione, i miei amici, le mie relazioni; nessuno è più miserabile di me. Non vorrei vantarmi della sofferenza che accompagnò questa vita non vissuta".

Ancora agli inizi della malattia che lo porterà via, Kafka comincia già a dirsi addio. E svaniscono definitivamente i sogni di una vita normale: "Tu che ti ritrovi a lottare di continuo per la tua professione interiore [la scrittura, cioè] tu vorresti avere una famiglia? E con quali forze pensi di mantenerla? Ogni aspetto del matrimonio ti disgusta. Non sei un contadino, i cui figli sarebbero mantenuti dalla terra, e puoi scavare fino a in fondo in te, non troverai un commerciante ma soltanto un impiegato [che probabilmente è il tipo d’uomo europeo più deplorevole] che per giunta ha i nervi fragili, e sprofondato nella melma della letteratura, ha i polmoni deboli e si aggira stanco attorno ai suo lavoro in ufficio".

Le parole di Kafka riservate nel Diario a se stesso e al suo mondo sono, sia per l’intensità sia per il linguaggio ["melma", "buio", "deplorevole", "disgustoso"] di sconcertante somiglianza con l’universo dei suoi racconti. Sembra a volte di rivivere lo stesso scenario, in cui i confini tra la realtà e l’immaginario sono difficili da tracciare. È proprio questa ricchezza visionaria che ha portato alcuni critici del dopoguerra a considerare lo scrittore un precursore, quasi un veggente degli orrori nazisti. Conoscendo il racconto "Nella colonia penale" in cui si escogita una macchina infernale che fa patire pene incredibili, ed inutili, ai detenuti, o guardando la cronaca del "Processo" senza motivi, certi paragoni sono facili. Fin troppo facili, forse. Furono in tanti a vedere in Kafka un ambasciatore diretto delle sofferenze subite dai milioni di ebrei durante la seconda guerra mondiale, ma la verità è probabilmente più semplice: questo è il mondo in cui viviamo. Tutti. L’orrore dei racconti non è legato alla ferocia dei crimini di guerra, ma semplicemente alla natura dell’uomo.

Se Kafka fornì materiale abbondante per la psicoanalisi, come del resto gran parte della letteratura austriaca, il freudismo non lasciò tracce dirette nelle sue opere, non vi è traccia di un’influenza simile nella sua vita. Anzi, sappiamo che, come Svevo, non amava lo stile inutilmente complicato e scientifico di certa analisi, e considerava questo tipo di cura dannoso sopra un certo limite. C’è invece chi, come Svevo, sembrò di adoperarla direttamente almeno nella Coscienza di Zeno. A Trieste le novità pervenute dalla Monarchia potevano del resto contare su una nutrita schiera di seguaci, prevalentemente dell’élite ebraica, che, proprio come a Vienna, aveva la possibilità di vivere il proprio ebraismo senza timore, interessandosi a quanto di nuovo arrivava dall’Occidente, senza l’esitazione dei cattolici.

Le teorie freudiane furono raccolte a Trieste da Edoardo Weiss, uno dei "pochi, vergognosamente pochi psicoanalisti italiani" si legge nel volume di Ghidetti, anzi, alcune fonti affermano che lo psichiatra triestino fosse già a conoscenza delle nuove dottrine quando il suo illustre collega viennese era ancora uno sconosciuto medico della capitale dell’Impero, anche questo serve a testimoniare il ruolo di avanguardia svolto da Trieste nell’assorbire la cultura mitteleuropea.

Conoscendo Weiss, Svevo ebbe l’occasione di discutere il fenomeno della psicoanalisi. E fu proprio il dottore che tranquillizzò Svevo che il suo romanzo, con la psicoanalisi, non aveva niente da spartire. Perché ve ne fu bisogno? Perché lo scrittore, nonostante l’eventuale influenza della nuova disciplina, dimostrò una chiara insofferenza verso l’ipotesi che la sua opera di romanziere italiano potesse affondare nella palude della letteratura psicoanalitica.

Il sentimento ambivalente verso la psicoanalisi è dato in parte dall’esperienza personale indiretta. Bruno Veneziani, fratello di Livia e pecora nera della famiglia in quanto omosessuale, tossicodipendente, e tra l’altro d’intelligenza brillante e riluttante a seguire le orme della famiglia, è curato a Vienna dallo stesso Freud. Nonostante i documenti della famiglia parlino chiaramente della repulsione di Bruno verso la guarigione, Svevo resterà deluso dall’esito negativo del trattamento, dichiarando che l’insuccesso del famoso medico viennese lo aveva lasciato con una "impressione disgustosa". Nonostante le parole d’astio, l’interesse di Svevo verso l’indagine psicologica e la tendenza all’autoanalisi sono chiare, in parte grazie alle pagine della "Coscienza di Zeno", fortemente autobiografiche sotto questo punto di vista. Quanto all’archiviazione dello scrittore come discepolo della scuola psicoanalitica, lasciamo che sia egli stesso a parlare, in due passi tratti dall’articolo "Soggiorno londinese": "[...] Ma c’è la scienza per aiutare a studiare se stessi. Precisiamo anche subito: la psicanalisi. Non temete ch’io ve ne parli troppo. Ve ne dico solo per avvertirvi che io con la psicanalisi non c’entro e ve ne darò la prova. Lessi dei libri di Freud nel 1908 se non sbaglio. Ora si dice che "Senilità" e "La coscienza di Zeno" le abbia scritte sotto la sua influenza. Per "Senilità" m’è facile di rispondere. Io pubblicai Senilità nel 1898 ed allora Freud non esisteva o in quanto esisteva si chiamava Charcot. In quanto alla "Coscienza" io per lungo tempo credetti di doverla a Freud ma pare mi sia ingannato. Adagio: vi sono due o tre idee nel romanzo che sono addirittura prese di peso dal Freud. L’uomo che per non assistere al funerale di colui che diceva suo amico e ch’era in realtà suo nemico si sbaglia di funerale è Freudiana, con un coraggio di cui me ne vanto. L’altro che sogna di avvenimenti lontani e nel sogno li altera come avrebbe voluto fossero stati, è Freudiano in modo come saprebbe fare chiunque conosca il Freud. È proprio un paragrafo di cui non mi vanterei se non vi fosse dentro un’altra ideuccia di cui mi compiaccio [...]. Ma quale scrittore potrebbe rinunziare di pensare almeno in psicanalisi? Io la conobbi nel 1910. Un mio amico nevrotico [Bruno Veneziani, n.d.r.] corse a Vienna per intraprenderla. L’avviso dato a me fu l’unico buon effetto della sua cura. Si fece psicoanalizzare per due anni e ritornò dalla cura distrutto: abulico come prima ma con la sua abulia aggravata dalla convinzione ch’egli, essendo fatto così, non potesse agire altrimenti. È lui che mi diede la convinzione che fosse pericoloso di spiegare ad un uomo com’era fatto ed ogni volta che lo vedo lo amo per l’antica amicizia ma anche per la nuova gratitudine. Lessi qualche cosa del Freud con fatica e pieno antipatia. Non si crederebbe ma io amo dagli altri scrittori una lingua pura ed uno stile chiaro e ornato. Secondo me il Freud, meno nelle sue celebri prelazioni che conobbi appena nel ‘16, è un po’ esitante, contorto, preciso con fatica. Però ne ripresi sempre a tratti la lettura continuamente sospesa per vera antipatia. Bisogna anche ricordare che vivevo in Austria, la sede del Freud. Le cure del Freud si moltiplicavano e alcune con risultati meravigliosi. A un dato punto io mi trovai nella testa la teoria del Freud [...] Come cura a me non importava. Io ero sano o almeno amavo tanto la mia malattia [se c’è] da preservarmela con intero spirito di autodifesa. Anzi la mia antipatia per lo stile del Freud fu interpretata da un Freudiane cui mi confidai come un colpo di denti dato dall’animale primitivo che c’è anche in me per proteggere la propria malattia".

È impressionante con quale chiarezza di stile Svevo si esprime sulla propria condizione di "malato", di "nevrotico", condizione che peraltro ha il proprio analizzatore più attento nello scrittore stesso. Probabilmente Svevo e Kafka furono veramente casi psicologici, che un’attenta e prudente analisi avrebbe potuto, o potrebbe, esplorare a dovere. Entrambi fuggivano dalla voracità dell’analisi della loro epoca, ed è sorprendente come rifiutassero le categorie che a volte venivano imposte su di loro. "Max, per tutto ciò che ti ho scritto, non credere che io soffra di manie di persecuzione" scrive Kafka a Max Brod. "Lo so per esperienza che non c’è posto che non venga occupato ovvero, se seduto nella mia sella vedrai me, solo allora potrai dire di aver visto il persecutore".

La citazione di sopra è una delle ultime del Diario di Kafka. Poco dopo lo scrittore morirà di tubercolosi, consumato dalla malattia. Un uomo non ancora quarantenne che veniva continuamente preso per un giovanotto sulla ventina, "con la faccia da ragazzo sotto i capelli grigi" come descrisse se stesso. "Scrivo diversamente da come parlo, parlo diversamente da come penso, penso diversamente da come dovrei pensare e così via, fino agli abissi più scuri" sentenziò scrivendo sulla propria vita. È il 1924, la Monarchia Austro-Ungarica non esiste più. Svevo morirà a Trieste quattro anni più tardi, facendo in tempo a vedere l’insorgere delle tensioni razziali, e il fascismo. "Fioi, guardé come che se mori", le ultime parole in dialetto, rivolte alla famiglia riunita al suo capezzale.

I due non s’incontrarono mai. Sappiamo però che Svevo conobbe ed apprezzò le opere di Kafka, prendendo addirittura in considerazione l’idea di scrivere un saggio su colui che considerò "uno dei miei autori preferiti".

Con la morte di due grandezze le memorie di coloro che ne sono stati accanto si fanno più vive, più nitide. "Era del tutto incapace di mentire, come era incapace di ubriacarsi" scrisse la seconda fidanzata di Kafka, Milena Jesenska, all’amico Max Brod. "Non aveva nessun posto dove rifugiarsi, non c’era un tetto sopra la sua testa. Per questo era soggetto a tutto ciò da cui noi siamo protetti. Era come nudo fra noialtri, vestiti... qualcuno costretto all’ascetismo dalla propria perspicacia, dalla purezza e dall’incapacità a qualsiasi compromesso". Parole vere. Chiunque legga il Diario-autoconfessione kafkiano oppure la raccolta di aforismi intitolata "La mia cella" potrà rendersi conto della candidezza, dell’ipersensibilità e dell’intransigenza morale di quest’uomo. Quanto a Svevo, è ricordato come un "gentiluomo di stampo ottocentesco che dai tempi andati deriva la caratteristica bonomia, la modestia della vita e la schiettezza delle convinzioni" dal collega Eugenio Montale.

Il tributo più sincero e semplicemente più bello arriva invece da Roberto Balzen, intellettuale triestino conoscitore di Italo Svevo. "Sono stato molto addolorato per la morte di Schmitz" scrive. "E sento molto, la sentono tutti, la sua mancanza [...] La leggenda della "nobile esistenza" [dedicata unicamente, ad eccezione dei tre romanzi – a far soldi] è troppo penosa e troppo ignobile. Non aveva che genio, nient’altro. Del resto era stupido, egoista, opportunista, gauche, calcolatore, senza tatto. Non aveva che genio: ed è questo che mi rende più affascinante il suo ricordo".


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