LA TURCHIA ED IL PETROLIO DEL KOSOVO
Il presidente della Turchia Suleyman Demiral ha recentemente fatto propria una dichiarazione già espressa dal leader del Partito della Madre Patria,e più volte premier, Mesut Yilmaz: “Il XXI secolo sarà il secolo della Turchia”. Una Turchia che andrà dal Kosovo alla Mongolia.
Ci sarebbe molto da riflettere su questo nuovo revanchismo in salsa ottomana, sulle sue basi e sulle sue prospettive future.
In Turchia vivono 70 milioni di persone ed almeno il 20 % di questi è di origine “balcanica”, ovvero discende da quei turchi che in seguito alla dissoluzione dell’impero lasciarono i suoi ex territori europei, per trasferirsi nella “madre patria”.
Almeno altri 70 milioni di turcofoni vivono sparsi tra le ex provincie europee dell’impero, le ex republiche sovietiche a maggioranza islamica, come l’Azerbaigian, la Georgia e l’Armenia e i paesi dell’Unione Europea, dove fortissima è la presenza dell’immigrazione turca. Si pensi che quasi 8 milioni di turchi vivono in Germania.
In prospettiva futura, il parallelo con la Germania, il paese dell’UE con la più consistente presenza turca, può essere illustrativo di certe tendenze di medio-lungo periodo alquanto significative:
Nel 1996 il tasso di fecondità della Turchia è stato del 2,70 % mentre la spesa pubblica per la Difesa pari al 3,60 del PIL. Nello stesso hanno la Germania presentava un tasso di fecondità pari al 1,30% e la sua spesa pubblica per la Difesa ammontava al 1,4% del PIL.
I dati italiani rendono più completo il quadro di riferimento: nel 1996 il nostro paese presentava un tasso di fecondità pari al 1,24% ed una spesa pubblica per la Difesa pari al 1,7 % del PIL.
Tendenze analoghe a quasi tutti i paesi dell’Unione Europea, ove si pensi che la Gran Bretagna emerge come il paese più disposto a destinare quote di bilancio alla Difesa con un 2,9% del PIL che rimane comunque ben al di sotto della quota destinata dal governo di Ankara alle proprie forze armate.
Basterebbe questo a dimostrare la politica revanchista, più o meno larvata, della Turchia, dove le forniture militari hanno un marchio ben preciso: MADE IN USA.
E’ risaputo che la Turchia viene vista da Washington come l’alleato principale sullo scenario euromediterraneo, il pilastro della politica estera statunitense nell’area, ben più di Israele, da un paio d’anni “abbandonata” al proprio destino. Da tale rapporto privilegiato con Washington i turchi vogliono trarre i maggiori benefici possibili, non solo militari, ma anche politici ed economici. Non a caso, rapporti sempre più stretti vengono stretti con l’Azerbaigian : al 1997 risale l’accordo di cooperazione militare.
Non a caso perché l’Azerbaigian è il maggior produttore di petrolio dell’area caucasica, dove si trovano i più ricchi giacimenti dei prossimi 150 anni. Dopo l’eclatante “contratto del secolo” del 1994, con i nuovi contratti del 1995 e del 1996, l’industria petrolifera azera è saldamente sotto il controllo angloamericano: la British Petroleum, la Exxon, la Amoco, la Penzoil e la Unolocal si spartiscono il pacchetto di maggioranza del “Consorzio del Caspio”.
Ed è dall’Azerbaigian che partirà il nuovo oleodotto che nei progetti angloamericani dovrà portare l’oro nero caucasico fino all’Adriatico.
Qual è la regione che oltre ad apprezzabili risorse minerarie presenta la ben più pregiata risorsa di essere l’unico collegamento logistico ottimale per il transito via terra dal vicino oriente all’Adriatico e quindi all’Europa occidentale?
Il Kosovo.
Questo per rispondere alla più grande mistificazione della propaganda di guerra USA/NATO nel corso di questo conflitto: “è una guerra umanitaria, mica c’e’ il petrolio in Kosovo”. Non c’e’ al momento, ci sarà a brevissima scadenza se tutto andrà secondo i piani. Ma il Kosovo non basta.
Si sta costruendo, passo dopo passo, sul cadavere della vecchia Jugoslavia, una “dorsale verde”, una serie di entità territoriali pseudostatali, ma di fatto veri e propri protettorati USA, a composizione etnica islamica e/o turcofona che dal Caspio porti fino all’Adriatico.
Il caso della Bosnia-Erzegovina e del suo stato fantoccio è emblematico. La presenza militare, attraverso basi militari NATO, è necessaria all'attuazione di questo disegno, che comporta, tra l’altro la destabilizzazione permanente dell’area e la sua mancata integrazione nella casa comune europea.
Non in Albania è previsto lo sbocco di questa via del petrolio perché questo ulteriore stato-fantoccio non ne presenta logisticamente la possibilità, data la arretratezza e la poca funzionalità dei suoi porti. Di maggiore funzionalità potrebbe essere il porto di Bar in Montenegro, per esempio, già oggetto di sussurrate rivendicazioni da parte albanese.
Tirana ben si presta al ruolo di gendarme NATO nei Balcani e la sua progressiva occupazione militare da parte degli USA in questi giorni è fin troppo evidente. Una grande Albania, che comprenda il Kosovo e la Macedonia del Vadar, sarà la chiave di volta americana dei Balcani e la Turchia sarà la degna sodale delle famigerate “sette sorelle” angloamericane.
Aspettiamoci senza sorpresa le prossime tappe di questa crisi balcanica: Montenegro, Vojvodina e Macedonia.
Oggi i caccia bombardieri turchi violano i cieli di Belgrado sotto la copertura della NATO e di un Europa colpevolmente passiva. Il passato ed il futuro si mescolano in un inquietante presente.
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