Il secolo degli EBREI


Sionismo. Psicoanalisi. Socialismo yiddish. Dovevano cambiare la realtà degli israeliti nell'Europa centrale. Hanno invece rivoluzionato il mondo, nonostante l'Olocausto. Dal multiculturalismo al movimento per i diritti civili. Dalla nuova storiografia alla filosofia dello Stato sociale. A partire dall'America, massima espressione dello spirito ebraico


di Wlodek Goldkorn
da L'Espresso 2/7/99



Il Jewish Heritage Museum, il museo ebraico recentemente aperto a Battery Park a New York, è un esagono: simbolo di sei milioni di ebrei morti durante la Shoah, ma anche dello scudo di David (così gli ebrei definiscono ciò che per i cristiani è la stella di David), simbolo della vita, della resistenza, della forza. Una scolaresca, ragazzi e ragazze di pelle nera, fa la fila per entrarvi. Una volta dentro, scoprirà un'esposizione, articolata lungo tre piani, sulla vita degli ebrei negli ultimi cent'anni in America e in Europa.

Al primo piano, il più interessante, si possono vedere, sentire, toccare le radici (l'esposizione è multimediale). Si racconta come erano e cosa facevano gli ebrei prima della catastrofe, la Shoah. Su un video scorrono foto con tanto di nome e cognome di sarti e calzolai delle piccole cittadine dell'Est. Tra il volto di un ciabattino e quello di un falegname, per un attimo spicca la faccia sorridente di "Albert Einstein, fisico", come recita la didascalia. Di fronte, scene di un comizio di sindacati ebrei socialisti a Varsavia, anni '30, e subito dopo uno sciopero negli sweat shops di New York, anni '20. Accanto: manifesti di partiti politici di sinistra: in yiddish, polacco, inglese, russo. Su un altro schermo ancora le immagini di "Jazz Singer" il primo film sonoro, con il protagonista Al Jolson. Un attore ebreo che in quel film recita una storia ebraica americana: il figlio di un cantore della sinagoga abbandona la comunità per darsi al jazz e alla bella vita. Di fronte, balla e canta sul video Molly Picon, una stella del cinema yiddish dei due continenti, una bellezza che faceva sospirare negli anni Trenta centinaia di migliaia di maschi ebrei, da Vilnius a Varsavia, da Cracovia a New York.


La terra promessa

Al secondo piano si narra la Shoah. Ma non c'è vittimismo. Né immagini di masse informi e anonime. Ci sono, invece, molte foto di persone formato passaporto, con tutti i dati anagrafici. Per non sprecare neanche una briciola di memoria. E, ancora, storie e immagini di combattenti, partigiani, resistenti. E video in cui coloro tra i gentili che salvavano gli ebrei rendono la loro eroica e commovente testimonianza. Al terzo piano: ciò che è rimasto dopo. Qualche foto, e uno schermo con un' impressionante galleria di persone che hanno fatto l'America del nostro secolo: Barbra Streisand e Lou Reed, Fred Zinnemann ("Mezzogiorno di fuoco") e Mel Brooks, Irving Berlin (l'autore della più bella canzone natalizia americana) e Billy Wilder, Hannah Arendt e il mago Houdini, Laureen Bacall e Allen Ginsberg, Woody Allen e George Gershwin (autore di "Porgie and Bess", un'epopea sui neri, ma anche grande ispiratore di "Manhattan" di Allen).

L'impatto emotivo dell'insieme è fortissimo. E, usciti dall'ultima sala, ecco che torna la luce del giorno. Una signora vi chiede del vostro stato d'animo, e poi vi porta gentilmente verso una grande vetrata. Che dà sulla Statua della Libertà e su Ellis Island, simboli della vera Terra Promessa, raggiunta dopo decenni di tribolazioni. Che ogni generazione ha il dovere di conoscere e ricordare.

"È vero, l'America è la terra promessa", conferma Arthur Hertzberg, rabbino, leader morale storico della comunità ebraica americana, e uno degli autori del progetto del Jewish Heritage Museum. Ma poi, seduto nello studio della sua sinagoga a Englewood nel New Jersey, si appresta a fare una domanda che sembra retorica: .Sa qual è il luogo più sacro sulla terra per gli ebrei?.. E subito dà una risposta: .Non è il Muro occidentale (l'ultima vestigia del Tempio di Salomone che i cristiani chiamano "il Muro del pianto"). Mi rendo conto che è scioccante che un rabbino non consideri il Muro così importante, ma per me il luogo più sacro è il controllo dei passaporti dell'aeroporto Ben Gurion a Tel Aviv. E sa perché? Perché è l'unico luogo del mondo dove un poliziotto non può dire a un ebreo "lei non è desiderato in questo paese".

Per la verità sulla sacralità del Muro occidentale aveva già dei dubbi un altro ebreo famoso. Si chiamava Sigmund Freud, ha rivoluzionato il modo di pensare dell'intero universo e, in una lettera scritta nel 1930 a uno dei responsabili del movimento sionista, affermava: "Non riesco ad avere simpatia per la pietas mal indirizzata che trasforma un pezzo di un muro erodiano in una reliquia nazionale, recando così offesa ai sentimenti della popolazione locale".


Vilnius: nasce il Bund

Socialismo in versione ebraica, sionismo, psicoanalisi. Tre movimenti nati cent'anni fa, nel 1897. Il primo, a Vilnius, oggi capitale della Lituania, allora una città multietnica dell'Impero zarista. In quel luogo, in una stanzetta di una casa in periferia, tredici persone fondarono il primo partito socialista di quell'Impero. Si chiamava Bund (Lega dei lavoratori ebrei di Russia, Polonia e Lituania), e ben prestò entrò nella leggenda. Organizzava squadre di autodifesa (armatissime) contro i pogrom, provocati dalla polizia zarista. Contro coloro che disprezzavano lo yiddish, la lingua di milioni di ebrei che vivevano tra la Vistola e il Don (.vernacolo corrotto., lo chiamavano i suoi detrattori ebrei e gentili), si batté perché quella lingua potesse essere usata nelle scuole, nei tribunali, nella pubblica amministrazione. Favorì lo sviluppo della letteratura e dei teatri yiddish. Si opponeva ferocemente a quella che chiamava "l'utopia sionista", e permise, grazie alle capacità dei suoi militanti, la nascita dei partiti socialisti russi, tra i quali il futuro partito comunista di Lenin. Infine, nella Polonia tra le due guerre mondiali, divenne un vero Stato nello Stato: gestiva una rete scolastica, una centrale sindacale, un sistema di sanità. Propugnava l'idea dell'autonomia nazionale degli ebrei nei paesi dell'Europa dell'Est, il loro riconoscimento insomma come una nazione, dentro uno Stato che doveva essere democratico. Un'idea nata, alla fine del secolo scorso a Vienna, nei caffè affollati da intellettuali ribelli e marxisti ebrei.

La stessa Vienna e gli stessi caffè dove il brillante giornalista Theodor Herzl sognava la costituzione di uno Stato ebraico. Le cui fondamenta vennero poste nel 1897 a Basilea durante il primo Congresso sionista. Un evento durante il quale Herzl impose ai delegati di vestire il frac, per dimostrare che anche gli ebrei erano capaci di decoro.


Inventiamo l'America

E nella stessa Vienna, sempre nel 1897, il dottor Sigmund Freud scopriva (e lo comunicava in una lettera all'amico Fliess) il complesso di Edipo. E anche la psicoanalisi, alla pari del sionismo e del socialismo in versione Bund, era, secondo Haim Yosef Yerushalmi, storico e docente alla Columbia University di New York, un movimento di emancipazione degli ebrei.

Tre movimenti dunque che volevano cambiare gli ebrei: il sionismo rendendoli conformi al mondo; il Bund modificando il mondo e gli ebrei; Freud emancipando la psiche. Ma che hanno finito per cambiare il volto del mondo (gli ebrei a cui erano rivolti sono invece finiti nei forni crematori), a partire dal suo centro: l'America.

Sì, il contributo degli ebrei alla formazione dell'America, come la conosciamo oggi, è stato fondamentale, dice senza esitazioni il rabbino Hertzberg. .Si prenda ad esempio il Welfare. Parte da un principio base delle comunità ebraiche nei secoli, quello della responsabilità di chi è benestante nei confronti dei più deboli (da noi i ricchi hanno sempre avuto il dovere di pagare gli studi ai ragazzi dotati, ma poveri). E si sviluppa qui negli Stati Uniti con gli immigrati dalla Russia che appena sbarcati, sotto l'influenza dei leader socialisti, si organizzano nei sindacati e lottano per i diritti dei lavoratori. "È vero", conferma Michael Walzer, professore di Scienze sociali all'Institute for Advanced Study, all'Università di Princeton, considerato uno dei massimi filosofi della politica viventi: "Il modo di agire, di organizzarsi, di pensare della sinistra americana ricalca i modelli dei socialisti ebrei in Europa centrale e dell'Est".


Jewish power, black power

Il professore fa l'esempio di come si fonda una rivista: "Mica si va a chiedere soldi alle istituzioni. Ci si mette nella cucina di un intellettuale, ci si autotassa, e si trasforma quella cucina in una redazione. È il principio dell'azione diretta, dell'assunzione della responsabilità, della non-delega., spiega. E poi allarga il campo: .I leader sindacali della Cio, degli anni '30, coloro che hanno trasformato quel sindacato in un fattore di primissimo piano nella politica americana, erano in maggior parte ebrei. Formatisi negli ambienti dei socialisti yiddish, quelli influenzati appunto dai modi d'azione del Bund in Russia e Polonia". Walzer cita nomi di capi sindacali, oggi di-menticati, ma una volta leggendari: Pat, Dubinski, grandi amici di un personaggio come Fiorello La Guardia, figlio a sua volta di Irene Coen Luzzatto.

Gli eredi di Pat, di Dubinski, si sono riuniti in questi giorni a New York per celebrare il 100esimo anniversario della nascita del loro partito, il Bund. Hanno fatto un convegno nella loro sede a Manhattan, tra vecchie bandiere rosse con fronzoli dorati, giornali ingialliti, foto di eroi da tempo scomparsi. Poi, in un grande albergo, davanti ai trecento vecchietti venuti da tutto il mondo, ha parlato uno di loro.

Si chiama Marek Edelman, di mestiere fa il cardiologo e vive in Polonia. Cinquantaquattro anni fa era il numero due del gruppo di cinque ragazzi che comandava l'insurrezione nel ghetto di Varsavia. Ha letto i nomi dei compagni morti: pochi gli eroi caduti con le armi in pugno, molti coloro che hanno svolto attività sociale, culturale: ragazze diciottenni che nel ghetto insegnavano ai bambini affamati, destinati a finire nei forni crematori, canzoni che parlavano di un avvenire di eguaglianza e fraternità. "Abbiamo sollevato la testa degli ebrei oppressi", diceva il dottore venuto da Varsavia. E i suoi amici arrivati dai quattro angoli del globo terrestre piangevano.

"Far sollevare la testa agli oppressi, da lì parte il sogno di tutte le lotte di emancipazione americane", riflette il professor Walzer. Da lì parte anche un'epopea che non è stata ancora raccontata fino in fondo. Quella dell'alleanza tra gli ebrei e i neri in America negli anni '50 e '60. Dice Jay J. Goldberg, giornalista e autore di un libro importante, "Jewish Power": "La metà degli attivisti bianchi che andarono al Sud ad aiutare i neri nella loro lotta per i diritti civili erano ebrei".

Rabbini famosissimi e importantissimi parteciparono alle marce di Martin Luther King. Lo stesso King, rivela Marek Edelman, frequentava il circolo dei socialisti yiddish di New York Workmens Circle. "Una volta, di passaggio a New York, lo incontrai", racconta Edelman, "sapeva tutto della nostra resistenza nel ghetto di Varsavia, dei nostri metodi di lotta, della nostra storia, del nostro concetto di dignità e dei diritti civili".

E oggi? Che influenza hanno oggi, in America, centro del mondo, l'unica superpotenza sopravvissuta alla guerra fredda, quelle vecchie idee nate nel-l'Europa centrale cent'anni fa. .Enorme., è la secca risposta di Goldberg. L'80 per cento degli ebrei vota democratico e condiziona questo partito e, di conseguenza, l'intero processo politico nel paese. Ma siccome gli ebrei costituiscono a loro volta appena il 2,5 per cento della popolazione come fanno ad avere un'influenza così enorme?


Israele? No, eguaglianza

Goldberg lo spiega così: "Gli ebrei sono concentrati nelle grandi città, e negli Stati che sono determinanti per l'esito delle consultazioni. E poi l'affluenza alle urne, tra gli ebrei, è pari a due volte quella dei non ebrei". L'abitudine a partecipare alla cosa pubblica, imparata fin dall'infanzia, e tramandata da generazioni di nonni immigrati dall'Europa, paga. E quali sono i valori che gli ebrei vorrebbero vedere realizzati con il loro impegno? "È evidente", risponde Walzer, "i diritti civili".

E Goldberg racconta come in Lousiana un rabbino chiamato a testimoniare davanti al Parlamento di questo Stato, che voleva proibire l'aborto, disse che tale divieto lederebbe i diritti religiosi degli ebrei, per i quali l'aborto in certe circostanze è lecito. Stando poi a un'indagine del "Los Angeles Times", per la metà degli ebrei americani il valore più importante del giudaismo è l'eguaglianza sociale. Solo il 15 per cento dichiara che il valore supremo è lo Stato d'Israele.

Nell'esperienza degli ebrei che ruolo ha allora il sionismo? La parola a Saul Friedlaender dell'Università ebraica di Gerusalemme, un signore di modi miti, considerato il massimo storico vivente. "A metà degli anni Sessanta il sionismo, da movimento di emancipazione degli ebrei, si è trasformato in strumento dell'oppressione dei palestinesi". Il professor Friedlaender racconta la sua esperienza di funzionario che fino alla fine degli anni '60 operava all'interno all'establishment israeliano (era segretario del presidente del Congresso sionista mondiale Nahum Goldmann e assistente dell'ex premier Shimon Peres): "Un giorno, dopo la guerra del '67, un ministro laburista importante mi dice parafrasando i bolscevichi: "Quella palestinese è una questione agraria: dobbiamo metterli con la testa in giù nella terra". Avevo capito tutto".


La mamma ebraica

"Comunque il sionismo ha dato una patria a milioni di persone. E siamo riusciti a fare la pace con i palestinesi, anche se con il governo di destra ci sono dei problemi", ribatte il professor Shlomo Avineri, politologo, anch'egli dell'Università di Gerusalemme; "Eppoi, abbiamo cambiato l'immagine che l'ebreo ha nel mondo", conclude. "Sì, il sionismo è un'esperienza fondamentale per noi ebrei americani", concorda il rabbino Hertzberg, "non significa necessariamente voler emigrare in Israele, ma aiuta a definire meglio la nostra identità".

Un'identità di gente che rivendica con molto orgoglio le proprie radici, e che ha finito per lasciare un marchio indelebile sul Ventesimo secolo. Ma non sempre è stato così. .Negli anni '40 e primi '50 ci fu un tentativo di intellettuali ebrei americani di fuggire dalle proprie radici, di creare un "essere universale americano", spiega Hertzberg, citando le prime opere di due scrittori famosissimi, Saul Bellow e Arthur Miller.

Oggi, invece, la memoria universale del nostro secolo è ampiamente ebraica: "Ci devo riflettere, ma forse l'unico modello di memoria esistente in Occidente è quello ebraico", dice, quasi timoroso delle proprie parole, Friedlaender. Ne è convinto invece Haim Yosef Yerushalmi: "Il concetto del tempo lineare è un'invenzione ebraica", ha scritto in un libro ("Zakhor") che ha fatto scuola.

In America la trasformazione della memoria specifica degli ebrei europei in una universale è stata sancita il 22 aprile 1993, quando il presidente Bill Clinton inaugurò a Washington il Museo dell'Olocausto. Un luogo che viene visitato da tutti i capi di Stato, di passaggio nella capitale Usa. "Mi chiede perché l'Olocausto è entrato così profondamente nella memoria americana?", riflette Walzer. E risponde: "Perché la Seconda guerra mondiale, a differenza di quella del Vietnam, è stata una guerra buona e giusta. E gli americani riescono a identificarsi con le vittime del nazismo". Hertzberg è più categorico: "È vero, abbiamo imposto la nostra memoria all'America, e di conseguenza all'Occidente tutto. Ne sono contento e orgoglioso".

Eppoi, racconta divertito come gli stessi ebrei hanno finito per credere in alcuni archetipi creati da loro. Il più famoso: quello della "Mamma ebraica", iperprotettiva e ansiosa, consacrato nei romanzi, film, barzellette di vago sapore freudiano.

"In verità", dice Hertzberg, "quella figura non è affatto ebraica. È tipica di tutte le società di immigrati poveri, in cui i padri arrivati nel paese nuovo perdono lo status precedente di capofamiglia, e i figli sono esposti a cattive influenze dell'ambiente sconosciuto. Sono quindi le donne a prendere il potere in famiglia. È successo pure agli ebrei, in America e altrove, ma per una generazione sola, ai primi del secolo".


Freud il liberatore

Imporre la memoria ebraica, i suoi modi, i suoi codici di interpretazione. In questo secolo se ne è occupata la psicoanalisi. Il professor Yosef Haim Yerushalmi non ha dubbi sul fatto che Freud si muoveva nel solco delle interpretazioni e della tradizione ebraica. Lo dimostra, secondo Yerushalmi, non solo il famoso saggio su Mosè scritto nel 1938, ma anche una serie di episodi della vita del dottore viennese. "Dopo la rottura con Carl Gustav Jung", scrive egli in una lettera: "noi siamo e rimaniamo ebrei. E c'è anche il fatto che nel 1930 Freud accetta di far parte della presidenza dello Yivo, l'Istituto scientifico yiddish, con sede a Vilnius [una specie di Accademia delle scienze della nazione ebraica nell'Europa del-l'est, fondata da populisti, socialisti, scrittori yiddish; esistente tuttora a New York; ndr]". Conclude Yerushalmi: "Sono convinto che Freud pensasse nel suo intimo che la psicoanalisi fosse un'ulteriore se non la definitiva versione del giudaismo, tanto è vero che sua figlia Anna (autentica interprete e spesso portavoce del padre), parlando della fuga degli psicoanalisti dalla Germania nazista, ha scritto: "Questa è una nuova forma di Diaspora". E cosa è la Diaspora se non la dispersione degli ebrei dopo la distruzione del Tempio?". David Meghnagi, psicoanalista italiano e docente alla Sapienza a Roma, aggiunge: "La psicoanalisi non è solo una scienza, ovviamente ebraica, ma è l'unica scienza a cui viene data forma di movimento di emancipazione. Con un suo capo carismatico, il suo eretico (Jung), i Congressi, i bollettini, l'organo del Partito". "Qui in America, la psicoanalisi è stata una vera religione delle élites intellettuali ebree, quelle che credevano nei valori, ma erano deluse dal Dio e dal comunismo", chiosa Hertzberg le parole di Yerushalmi.


Tempio della New School

Negli anni Trenta, i messaggeri del verbo freudiano nel mondo nuovo erano ebrei fuggiti dalle persecuzioni naziste. Ma gli ebrei non portarono solo la psicoanalisi. C'erano pure economisti che diedero vita alla scuola di Chicago (vedi intervista a Jacob Frenkel a pagina 104) che con Milton Friedman, il suo esponente più famoso, rivoluzionò il mondo sul finire di questo Millennio.

Eppoi c'erano filosofi, sociologi, da Marcuse a Horkheimer, da Adorno a Hanna Arendt, rifugiatisi in America, ma rimasti sospesi tra il vecchio e il nuovo continente. E le cui idee si erano allacciate a quelle più vecchie già esistenti in America, per essere riesportate a loro volta in Europa. Prendiamo ad esempio Hanna Arendt. La filosofa ebrea tedesca teneva corsi alla New School for Social Research di New York. Tra i cui fondatori c'era Horace Kallen, un sociologo ebreo che tra gli anni '10 e '20 di questo secolo coniò il termine "pluralismo culturale". Contro il "melting pot", un termine inventato dallo scrittore pure lui ebreo Israel Zangwill, Kallen proponeva un'America delle nazioni. Un'America fatta di tante identità culturali autonome e federate tra di loro. "Un po' come il Bund voleva l'autonomia culturale e nazionale nell'Europa dell'Est", dice Walzer. E spiega: "Kallen è stato l'inventore del multiculturalismo, un'idea che in America comincia a funzionare, e con la quale voi europei, ora, alla fine del Ventesimo secolo, dovete fare i conti".

Alla New School, da alcuni anni, esiste un corso destinato a insegnare le fondamenta delle democrazia in Europa centrale. Lo frequentano studiosi polacchi, russi, ucraini. Quest'anno all'inaugurazione c'è stato un ospite d'onore: Marek Edelman. Il discorso introduttivo lo ha fatto una signora che poco prima, con Edelman, parlava in yiddish. "Che vuole, anche il progresso è un'invenzione ebraica", sorride Walzer, "tutto lo schema del secondo libro della Torah, l'Esodo, si basa sul paradigma del passaggio dalla schiavitù alla libertà".

Progresso, multiculturalismo, diritti umani? Ma la Shoah che posto ha alla fine di questo secolo? È solo un luogo della memoria? Una sfida con cui si sta misurando anche la Chiesa cattolica? "È l'evento più importante del secolo, quello che ne fissa il carattere", risponde Friedlaender.


Copernico della storia

Per capire il significato della Shoah e le sue cause il professore ha dovuto rivoluzionare la storiografia. Oggi, sorride, mentre seduto al tavolo di lavoro, in una delle più belle case di Gerusalemme (la sua), racconta l'avventura intellettuale di cui è stato protagonista: "Mi sono diretto verso un'indagine psicoanalitica per capire l'irrazionalità del linguaggio di Hitler e la follia che era l'annientamento degli ebrei da parte di Hitler. Oggi ho dei ripensamenti. Avevo adottato, a suo tempo, un modello freudiano rigido. Che semplificava troppo la storia delle culture". Un pentimento? "No, ho semplicemente capito che la complessità della storia non può essere spiegata con dei modelli fissi. Ma rimane il fatto che la Shoah può essere paragonata a un terremoto così forte da distruggere anche gli strumenti fatti per misurare la sua intensità". "Mi spiego", prosegue, "dopo Auschwitz occorreva trovare un linguaggio nuovo e strumenti nuovi per la storiografia".

E così, dice Friedlaender, oggi non solo uno storico non può essere digiuno di psicoanalisi (sarebbe come uno storico che non sa niente di economia), ma "un'indagine storiografica non può procedere che per associazioni e per rappresentazioni". E quello di procedere per associazioni e rappresentazioni è un classico metodo talmudico vecchio di millenni adottato da Freud per la psicoanalisi, appunto.

In concreto come viene applicato un tale metodo? Lo spiega Dan Diner, allievo e collega di Friedlaender, che in questi mesi sta scrivendo una monumentale storia del Ventesimo secolo. "Abbiamo sempre creduto che il nostro fosse un secolo caratterizzato da una guerra civile ideologica", dice, "è invece l'ideologia non era che una rappresentazione falsa del vero principio su cui si incardina la storia del nostro continente negli ultimi cent'anni". Quale principio? "Ovvio, quello etnico", è la sorprendente risposta del professore, "e siccome nell'Europa del centro e orientale le differenze etniche corrispondevano spessissimo a quelle di classe, era facile dare a tali conflitti una rappresentazione di guerre ideologiche". Del resto, sottolinea Diner, il nostro secolo dal punto di vista storiografico comincia nei Balcani, e simbolicamente nel 1914 a Sarajevo, luogo per eccellenza di conflitti etnici. Gli ebrei da questo punto di vista non sono una eccezione.


Sospesi in aria

E qui un'altra sorpresa. Finora si è pensato che Theodor Herzl avesse inventato il sionismo come risposta all'affaire Dreyfus, l'ufficiale francese di origine ebraica accusato nel 1894 di essere una spia tedesca. E invece, sostiene il professore, l'idea di percepire gli ebrei come un'etnia e una nazione sola a cui dare uno Stato gli era venuta in mente grazie al nonno che era un assiduo frequentatore di un rabbino, Yehuda Alkalai. Che operava a Sarajevo appunto. E che già a metà dell'Ottocento aveva proposto il trasferimento degli ebrei in Palestina.

Insomma, per dirla con le parole di Friedlaender: "Gli ebrei per via della loro situazione particolare prima degli altri hanno percepito le grandi tendenze e i cambiamenti del secolo". Tra questi, non soltanto le rivendicazioni etniche, ma anche il loro contrario. Dice Walzer: "Gli stili culturali e intellettuali oggi sono transnazionali. Ci si sposta da Amsterdam a New York, da Parigi a Roma, con la stessa facilità con cui un ebreo nel medioevo si spostava da una comunità in Polonia a un'altra in Francia".

"Sì, con la loro apparente non appartenenza ad alcun luogo fisso, con l'alienazione che ne deriva, gli ebrei hanno tracciato il solco del secolo. Erano impegnati nella produzione di beni immateriali, quando tutti parlavano ancora dei lavoratori manuali e degli agricoltori. Erano i primi a capire che non occorre avere radici nella terra e che un filosofo rende più di un ingegnere", dice Diner.

George Steiner, il più grande critico letterario vivente, ha scritto moltissimo su coloro che sono privi di radici: "Li chiamavano Luftmenschen (uomini sospesi in aria)", afferma, "e a partire da Franz Kafka hanno anticipato le grandi tendenze del Ventesimo secolo in Europa e in America. Praga, Budapest, Vienna, Francoforte, New York sono state non solo le capitali ebraiche del nostro secolo, ma le sue capitali tout court".

Il nostro, secondo Steiner, è stato un secolo di sradicamento, di abbandoni ed esilii. Un secolo della amara vittoria degli ebrei quindi, dato che l'esilio è una condizione naturale alla fine del Millennio, anzi, "anche la Torah è un luogo di esilio". Perché "tutti noi siamo ospiti di questo pianeta".




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