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"Biobugie & Tecnoverità"  a cura del coordinamento MobiliTebio, Fratelli Frilli Editori (2001), Lire 26.000

Con il permesso dei Fratelli Frilli Editori, pubblichiamo il testo dell'intervento della Dott.ssa Vandana Shiva al Teatro 2 di Parma il 29/11/2000, il cui testo integrale troverete nel libro "Biobugie & Tecnoverità".

La globalizzazione non è inevitabile 

Vandana Shiva

Al Teatro 2 di Parma il 29/11/2000 

Ogni volta che mi capita di venire in Italia, mi dico che è bello vedere città che siano ancora vitali, che sopravvivono nella propria integrità, e non sono nè le città artificiali della globalizzazione*, nè le rovine della globalizzazione. 

La globalizzazione è stata spesso descritta come un fenomeno  naturale, inevitabile. Ma assistendo ai nuovi accordi commerciali internazionali e alle negoziazioni sui diritti di proprietà intellettuale dei tardi anni ’80, mi apparve molto chiaro che non di un fenomeno naturale si trattava, bensì di un fenomeno eminentemente politico. E che si nota piuttosto bene l’emergere dei nuove convergenze di poteri a sostegno del progetto di globalizzazione – in determinate situazioni ho descritto tale fenomeno come il progetto finale di dominazione capitalista.

In oltre trent’anni, le due cose che ho potuto osservare sono, anzitutto che la globalizzazione stava ridefinendo ogni aspetto della nostra vita, si tratti delle nostre culture, della democrazia, dei nostri mezzi di sussistenza, e anche la biodiversità, l’acqua, i bisogni fondamentali, il lavoro, in termini puramente commerciali. E in secondo luogo che stava eliminando il nostro spazio decisionale a livello locale e nazionale, sostituendolo con regole scritte e applicate a livello internazionale e globale. 

In altre parole, vi sono due tipi di globalizzazione: c’è una globalizzazione del commercio e dei valori commerciali che penetrano ogni settore della vita – la mercificazione della vita; e c’è la morte della democrazia -  l’impossibilità di decidere sulle nostre condizioni di vita. 

E queste sono le due grandi preoccupazioni che hanno definito il mio impegno, perchè io credo che la maggior parte della nostra vita non appartenga al commercio. Vengo da una società in cui ancora oggi la maggior parte delle persone prega quotidianamente l’acqua prima di lavarsi e di lavare i propri figli, considerandola sacra. E poichè l’acqua è considerata come l’origine della vita in molti dei miti della creazione, ogni dodici anni in India si svolge una festa che raduna dieci milioni di persone per fare il bagno nel Gange, ed è la celebrazione della creazione – Kumbh Mela**. E’ nota anche come la più grande festa in cui si arriva senza essere invitati.

E adesso la Banca mondiale stila programmi di “aggiustamento strutturale” in cui si dice che l’acqua va privatizzata e diventa così proprietà di società a cui dobbiamo pagare licenze e tasse per l’acqua che possiamo avere dalle sorgenti, dai laghi, dai fiumi; e la WTO decide di annunciare che fra i “servizi” commerciabili in base ai suoi regolamenti ci sarà il commercio dell’acqua, definito come “servizio ambientale”, cosicchè chiunque sia in possesso di denaro potrà procurarsi l’acqua in ogni luogo della terra, e venderla ovunque ci sia gente in grado di comprarla. Di fronte a cose come queste, si può solo dire: basta! Il commercio non può e non deve mettere le mani sulle basi della nostra sussistenza. 

Quattro grandi società hanno deciso cinque anni fa che se avessero messo le mani sull’acqua, privatizzandola, privatizzando gli acquedotti avrebbero potuto guadagnare migliaia di miliardi, perchè dell’acqua abbiamo bisogno ogni giorno della nostra vita. E cinque società stanno cercando di far pagare a ogni agricoltore dei diritti per ogni seme che pianta, e potete immaginare quanto guadagno potranno trarre appropriandosi della vita mediante brevetti.

Ci sono aspetti della vita che non rientrano in questo schema: il cibo ad esempio. Il mio paese e l’Italia hanno in comune questa straordinaria celebrazione del cibo come cultura e come fonte della vita. In India abbiamo addirittura un trattato dedicato interamente al cibo, al mondo come cibo,  alla preparazione e al consumo del cibo come stile di vita, alla preparazione e al modo di servire il cibo come parte integrante dell’etica. E il fatto che questa cultura del cibo si è evoluta nel corso dai secoli, fa sì  che oggi, se andate in una qualunque parte dell’India, anche le più povere, vi verrà offerto del cibo,  perchè ognuno di voi è visto come la più sacra delle offerte. Quelli che hanno fatto parte della generazione hippy lo sanno molto bene: in India c’è sempre qualcuno che provvede al vostro pane quotidiano. 

Ecco alcuni esempi che mostrano che genere di impatto sta avendo la globalizzazione in india. Il primo cambiamento radicale si è  avuto nel 1988, quando la Banca Mondiale ha imposto l’autorizzazione alle multinazionali a vendere i loro semi sul mercato indiano. Il credito rurale dato ai contadini dalle casse di risparmio locali e dalle banche pubbliche a un tasso di interesse controllato è stato proibito, e così l’esntensione di credito. Da quel momento in poi la nostra agricoltura, così ricca e varia, le nostre comunità agricole, sono diventate vittima di una campagna pubblicitaria per i semi prodotti da un pugno di multinazional. E probabilmente sapete  che queste grandi società altro non sono che le vecchie industrie chimiche, quelle che hanno prodotto il DDT e l’agente Orange, che si sono ora riconvertite   alla produzione di semi e alle biotecnologie. Così adesso possiedono i brevetti, producono i semi, vendono i prodotti chimici. Vendono semi che gli agricoltori devono ricomprare di anno in anno, in “pacchetti” che comprendono i fertilizzanti e pesticidi che producono. 

Così di colpo, in India, i contadini che praticavano un’agricoltura tradizionale, di sussistenza, che producevano il proprio cibo e i propri strumenti di lavoro, in modo sostenibile, si sono trovati a dover pagare pesticidi che costano centinaia di migliaia di rupie l’anno, per l’acquisto dei quali sono le ditte stesse a fare credito, a tassi di itneresse altissimi. E’ un fenomeno, quello a cui assistiamo, che io chiamo “feudalesimo consociativo”, in cui le multinazionali si associano a livello locale con i peggiori poteri feudali, e riportano in vita tutte quelle forze sociali che eravamo riusciti a tenere a bada, e tutte le disuguaglianze che avevamo appianato negli ultimi cinquant’anni dall’Indipendenza. 

E la conseguenza più drammatica è l’aver ridotto i contadini a indebitarsi al punto che l’unica via d’uscita è rappresentata dal suicidio. Il suicidio per indebitamento è ormai epidemico fra i contadini indiani: ci sono stati oltre ventimila suicidi di questo tipo negli ultimi tre ani. E non è questa l’unica ragione per cui i contadini tradizionali sono in crisi: contadini che sono sopravvisuti a migliaia di anni di agricoltura, che sono sopravvisuti a inondazioni e siccità, che sono sopravvissuti a ogni genere di crisi e situazione di emervenza, senza mai arrivare a pensare di suicidarsi, perchè sapevano che la siccità e la carestia passano l’anno successivo, ma le regole del potere economico non conoscono la pietà. 

E poi pensiamo a che genere di potere è questo. Stiamo parlando di cinque grandi società che controllano i semi, a quattro società che controllano il commercio internazionale del cibo, parliamo delle cinque società dei semi che si associano l’industria dell’intrattenimento per imporre all’Organizzazione Mondiale del Commercio accordi sui diritti di proprietà intellettuale. E nel caso dell’agricoltura, sappiamo che la più grande di queste società, la Cargill, nomina i propri rappresentanti delle delegazioni USA che negoziano gli accordi internazionali sull’agricoltura della WTO, che vietano ai paesi di porre limiti alle importazioni e alle esportazioni, di avere un proprio sistema di incentivi e prestiti, e impongono regolo internazionali sulla “sicurezza alimentare” che non sono vere regole di sicurezza, ma sono regole che impongono un “livello accettabile di rischio”. 

Il commercio di per sè non è un fatto nuovo: i paesi hanno sempre commerciato fra loro. Ciò che è nuovo è l’aver reso illegale la regolamentazione del commercio. L’India ha esportato il pepe nero per secoli, e proprio il pepe è stata la ragione per cui gli europei sono arrivati in India: lo chiamavano “oro nero” perchè veniva pagato il doppio del suo peso in oro. Ma non è questo genere di prodotto che interessa alla Banca Mondiale: ci hanno detto di non produrre più il pepe e le spezie, ci hanno detto:”al mercato occidentale interessano gamberetti, fiori e frutta”. 

Nel caso dell’acquacoltura, per ogni dollaro guadagnato sui gamberetti – dollaro che naturalmente va alle multinazionali – le comunità locali ne perdono dieci in termini di distruzione dell’ambiente e risorse locali. Nel caso dei fiori, il commercio è monopolizzato dall’Olanda; arrivano i tecnici olandesi, si fanno pagare i semi (che sono brevettati) si fanno pagare la consulenza, si fanno persino pagare il materiale per costruire  le serre; in cinque anni di esportazione di fiori l’India ha perso dieci milioni di rupie. Secondo le logiche della Banca Mondiale, noi dovremmo produrre fiori invece dei generi di prima necessità, e col denaro guadagnato dovremmo comprare del cibo che producevamo prima su quello stesso terreno. Come a dire che la globalizzazione ha già determinato un calo secco del 75% della disponibilità di cibo di queste zone. 

La globalizzazione implica anche l’abolizione dei sussidi sui generi di prima necessità a sostegno delle fasce più povere della popolazione. In India, negli ultimi tre anni, il prezzo dei cereali di prima necessità come riso, grano e miglio è raddoppiato ogni anno, cioè  sestuplicato in soli tre anni, Almeno la metà della popolazione dell’India spende il 90% del proprio reddito per il cibo; che succede se i prezzi aumentano di sei volte? Per prima cosa, le donne si ingegnano a lavorare di più; e poi si comincia a mangiare meno. Il che ha fatto sì che quest’anno l’India si ritrovi di colpo con 42 milioni di tonnellate di sruplus di cereali. Un surplus che si è creato perchè le persone non hanno più i soldi per comprarli. E ora ci vengono a dire che non possiamo ridistribuire questo surplus a basso costo mediante programmi di sostegno nazionali, ma in compenso possiamo svenderlo all’estero per un quarto del prezzo. Come a dire che i cittadini non hanno più diritto  a ricevere sostegno economico dallo stato, ma  possono averne a volontà le multinazionali. 

E fenomeni di questo tipo si verifica non non solo quando vengono incoraggiate le esportazioni, ma anche quando vengono deregolamentate le importazioni. In India, attualmente, l’imporatazione  di prodotti agrcoli è una delle questioni politiche più scottanti. C’è stata una discussione molto importate  all’Organizzazione Mondiale del Commercio lo scorso anno, riguardo ai limiti da imporre sulle restrizioni, il che – detto in  parole povere – significa che paesi come l’India non possono più imporre restrizioni sulle importazioni. E stato un sollievo vedere che nei ristoranti italiani si serve olio d’oliva extra vergine, perchè con quello che è successo negli ultimi tre anni in India, ormai sono abituata a pensare che in ogni bottiglia ci sia dell’olio di soia modifiata geneticamente. 

E questo olio di soia non costa affatto poco; solo che gli Stati Uniti lo finanziano pagando addirittura più del suo prezzo alla produzione: lo scorso anno, a fronte di un costo di 155 dollari a tonnellata, il governo americano ne ha dati 197. 

E il sistema con cui gli Stati Uniti hanno ottenuto di poter dare questo tipo di sussidi all’agricoltura, a fronte di un divieto mondiale contro tali sussidi, in base agli accordi della WTO, i sussidi degli altri paesi sono chiamati “sussidi”, mentre per gli Stati Uniti si parla di “incentivi”. E dal 1995 ad oggi, i sussidi americani all’agricoltura sono raddoppiati; e niente negli accordi della WTO può interferire. 

E per questa ragione adesso ci troviamo invasi da prodotti che di fatto non vogliamo; un esempio eclatante è  quello dell’olio di soia, che sta sostituendo il nostro tradizionale olio di senape in India settentrionale – olio che è stato bandito dalla vendita sfusa grazie a pressioni sul governo. 

In Kerala, un bellissimo stato dell’India meridionale il cui nome viene dalla noce di cocco che cresce in quelle zone, l’olio di cocco locale sta venendo soppiantato dall’olio di soia statunitense e da quello di palma indonesiano. In Kerala la popolazione ha manifestato contro questi oli, distruggendoli, e bloccando le navi cariche di questi prodotti nel porto; perchè rischiano di far fuori non solo colture che permettono la sopravvivenza del 75% degli indiani, ma anche piantagioni di palme da  cocco antiche di secoli.  E mentre dare sussidi a questo tipo di colture è adesso vietato, non ci sono leggi che frenino l’ingresso di merci vendute artificiosamente a basso prezzo che distruggono non solo le colture tradizionali, ma ogni altro aspetto della società. 

E la ragione per cui i prodotti delle multinazionali agroalimentari possono essere venduti sui mercati internazionali a un pezzo tanto basso da mettere fuori mercato le produzioni locali, non è dovuto a una loro maggiore efficienza nella produzione. Di fatto, questi colossi transnazionali non producono nemmeno direttamente il cibo. Riescono però a  guadagnarci tre volte: la prima volta vendono agli agricoltori quanto occorre per la produzione, cioè semi e prodotti chimici; poi comprano dagli stessi produttori a un prezzo che decidono loro, con  l’aiuto dei sussidi di stato; e alla fine – data la loro struttura che copre tutta la filiera di distribuzione -  riescono a controllare il luogo e il prezzo di vendita. Questa loro abile strategia commerciale, sostenuta da leggi studiate ad hoc, permette di collocare le merci da essi trattate in ogni angolo del mondo a pezzi competitivi, abbattendo la concorrenza, e lasciando tutti gli altri concorrenti più poveri. 

Questo sistema non si basa su una reale produttività, o su dei veri surplus, o su una vera concorrenza – tutte parole d’ordine di facciata del commercio globale. Si basano invece su una pseudo-produttività, su un pseudo-surplus, e su una pseudo-cocorrenza. Non c’è aumento di produttività, perchè non si produce di più sfruttando in modo più efficiente le risorse naturali -  in effetti ciò che aumenta è solo la distruzione del pianeta, dei terreni, dell’acqua, della biodiversità, sottraendo terra agli agricoltori del mondo. 

Le società tradizionali hanno sempre avuto il buon senso di smerciare il surplus: prima si nutre la terra, i microorganismi del terreno, poi le mucche, le capre, i maiali, poi ci nutriamo noi, e quel che resta si scambia sul mercato. Ora si è creato un sistema per cui siamo obbligati a vendere tutto, e poi mangiare quel che resta, se ne resta. Il che equivale a dire che non resta nulla per i più poveri. E il bello è che la parola d’ordine ricorrente nella globalizzazione è “concorrenza”. Tutto viene fatto nel nome della concorrenza. Ma quale concorrenza può esserci se solo cinque società controllano tutta la filiera di produzione agricola, dal campo alla tavola? Questo è monopolio, non concorrenza. 

E le tre ragioni principali del mio impegno contro la globalizzazione sono: che mi vengono i brividi  di terrore alla sola idea che al mondo resti solo McDonald’s – è una realtà peggiore di qualsiasi incubo; che non posso sopportare che le cose che più  mi stanno a cuore – la gente del mio paese, le aree rurali, la biodiversità, la diversità culturale – siano cancellate da azioni tanto irresponsabili, da persone che non hanno idea di ciò che stanno distruggendo; e che amo la verità,   e la globalizazione è una gran massa di bugie. Ed è per questo che abbiamo lavorato per creare il movimento di Seattle, ed è per questo che lavoriamo dopo  Seattle, con la parola d’ordine “shrink or sink” (limitare o affondare), a significare che il commercio va limitato al suo ambito proprio,  e regolato in modo corretto, non con regole che favoriscono le transnazionali e criminalizzano costantemente i cittadini; come la storia ci insegna, le dittature – e questa è una dittatura – che vanno troppo in là contro la volontà della gente, possono usare la forza solo per qualche anno, sostenersi con la violenza per un breve periodo, ma non riusciranno mai a costruire un potere duraturo sulla base della negazione della volontà popolare e delle aspirazioni democratiche della società. 

A volte ho l’impressione di trovarmi in un nuovo movimento di liberazione, solo che questa volta in gioco c’è la libertà di tutti gli esseri umani e di tutte le specie viventi. Non riguarda solo l’umanità, non riguarda solo un settore della società, ma tutti fino all’ultima persona e all’ultima specie, uniti assieme in una lotta per la libertà nella quale siamo sorprendentemente connessi, a dispetto delle distanze geografiche e culturali.

E questo legame non viene dalla globalizzazione, perchè la globalizzazione rende le persone più spaventate, più insicure, al punto che non riescono a rapportarsi nemmeno alle proprie famiglie e alle proprie comunità. Hanno paura del domani, perchè non c’è più alcuna certezza per il futuro. Noi vogliamo la vera globalizzazione, che sia costruzione di legami di solidarietà fra le differenti culture del mondo, e una libertà definita nei termini del pianeta e dei suoi abitanti,  nei termini del potere delle multinazionali.

Ed ecco perchè sono felice di essere qui, a stabilire una piccola connessione con voi questa sera.

 

*Vandana Shiva usa il plastico termine boomtown – città generate da crescita demografica e inurbamento priva di pianificazione.

** Festività che celebra il Gange  come madre della vita.

 

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