Metro: Endecasillabi sciolti.
O graziosa luna, io mi rammento che, or volge l'anno, sovra questo colle io venia pien d'angoscia a rimirarti: e tu pendevi allor su quella selva siccome or fai, che tutta la rischiari. 5 Ma nebuloso e tremulo dal pianto che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci il tuo volto apparia, che travagliosa era mia vita: ed è, né cangia stile, o mia diletta luna. E pur mi giova 10 la ricordanza, e il noverar l'etate del mio dolore. Oh come grato occorre nel tempo giovanil, quando ancor lungo la speme e breve ha la memoria il corso, il rimembrar delle passate cose, 15 ancor che triste, e che l'affanno duri!
Metro: Canzone libera. È la prima in ordine
cronologico ed è composta da sei strofe, diverse
tra loro per numero di versi e schema.
Silvia, rimembri ancora quel tempo della tua vita mortale, quando beltà splendea negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, e tu, lieta e pensosa, il limitare 5 di gioventù salivi? Sonavan le quiete stanze, e le vie dintorno, al tuo perpetuo canto, allor che all'opre femminili intenta 10 sedevi, assai contenta di quel vago avvenir che in mente avevi. Era il maggio odoroso: e tu solevi così menare il giorno. Io gli studi leggiadri 15 talor lasciando e le sudate carte, ove il tempo mio primo e di me si spendea la miglior parte, d'in su i veroni del paterno ostello porgea gli orecchi al suon della tua voce, 20 ed alla man veloce che percorrea la faticosa tela. Mirava il ciel sereno, le vie dorate e gli orti, e quinci il mar da lungi, e quindi il monte. 25 Lingua mortal non dice quel ch'io sentiva in seno. Che pensieri soavi, che speranze, che cori, o Silvia mia! Quale allor ci apparia 30 la vita umana e il fato! Quando sovviemmi di cotanta speme, un affetto mi preme acerbo e sconsolato, e tornami a doler di mia sventura. 35 O natura, o natura, perché non rendi poi quel che prometti allor? perché di tanto inganni i figli tuoi? Tu pria che l'erbe inaridisse il verno, 40 da chiuso morbo combattuta e vinta, perivi, o tenerella. E non vedevi il fior degli anni tuoi; non ti molceva il core la dolce lode or delle negre chiome, 45 or degli sguardi innamorati e schivi; né teco le compagne ai dì festivi ragionavan d'amore. Anche peria tra poco la speranza mia dolce: agli anni miei 50 anche negaro i fati la giovanezza. Ahi come, come passata sei, cara compagna dell'età mia nova, mia lacrimata speme! 55 Questo è quel mondo? questi i diletti, l'amor, l'opre, gli eventi onde cotanto ragionammo insieme? questa la sorte dell'umane genti? All'apparir del vero 60 tu, misera, cadesti: e con la mano la fredda morte ed una tomba ignuda mostravi di lontano.
Metro: Canzone libera di sei strofe, con rime frequenti.
La rima -ale è costante alla fine di ciascuna strofe ed è
ripresa all'inizio della strofe-congedo.
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, Silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai, Contemplando i deserti; indi ti posi. Ancor non sei tu paga 5 Di riandare i sempiterni calli? Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga Di mirar queste valli? Somiglia alla tua vita La vita del pastore. 10 Sorge in sul primo albore Move la greggia oltre pel campo, e vede Greggi, fontane ed erbe; Poi stanco si riposa in su la sera: Altro mai non ispera. 15 Dimmi, o luna: a che vale Al pastor la sua vita, La vostra vita a voi? dimmi: ove tende Questo vagar mio breve, Il tuo corso immortale? 20 Vecchierel bianco, infermo, Mezzo vestito e scalzo, Con gravissimo fascio in su le spalle, Per montagna e per valle, Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte, 25 Al vento, alla tempesta, e quando avvampa L'ora, e quando poi gela, Corre via, corre, anela, Varca torrenti e stagni, Cade, risorge, e più e più s'affretta, 30 Senza posa o ristoro, Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva Colà dove la via E dove il tanto affaticar fu volto: Abisso orrido, immenso, 35 Ov'ei precipitando, il tutto obblia. Vergine luna, tale E la vita mortale. Nasce l'uomo a fatica, Ed è rischio di morte il nascimento. 40 Prova pena e tormento Per prima cosa; e in sul principio stesso La madre e il genitore Il prende a consolar dell'esser nato. Poi che crescendo viene, 45 L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre Con atti e con parole Studiasi fargli core, E consolarlo dell'umano stato: Altro ufficio più grato 50 Non si fa da parenti alla lor prole. Ma perché dare al sole, Perché reggere in vita Chi poi di quella consolar convenga? Se la vita è sventura, 55 Perché da noi si dura? Intatta luna, tale E lo stato mortale. Ma tu mortal non sei, E forse del mio dir poco ti cale. 60 Pur tu, solinga, eterna peregrina, Che sì pensosa sei, tu forse intendi, Questo viver terreno, Il patir nostro, il sospirar, che sia; Che sia questo morir, questo supremo 65 Scolorar del sembiante, E perir dalla terra, e venir meno Ad ogni usata, amante compagnia. E tu certo comprendi Il perché delle cose, e vedi il frutto 70 Del mattin, della sera, Del tacito, infinito andar del tempo. Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore Rida la primavera, A chi giovi l'ardore, e che procacci 75 Il verno co' suoi ghiacci. Mille cose sai tu, mille discopri, Che son celate al semplice pastore. Spesso quand'io ti miro Star così muta in sul deserto piano, 80 Che, in suo giro lontano, al ciel confina; Ovver con la mia greggia Seguirmi viaggiando a mano a mano; E quando miro in cielo arder le stelle; Dico fra me pensando: 85 A che tante facelle? Che fa l'aria infinita, e quel profondo Infinito seren? che vuol dir questa Solitudine immensa? ed io che sono? Così meco ragiono: e della stanza 90 Smisurata e superba, E dell'innumerabile famiglia; Poi di tanto adoprar, di tanti moti D'ogni celeste, ogni terrena cosa, Girando senza posa, 95 Per tornar sempre là donde son mosse; Uso alcuno, alcun frutto Indovinar non so. Ma tu per certo, Giovinetta immortal, conosci il tutto. Questo io conosco e sento, 100 Che degli eterni giri, Che dell'esser mio frale, Qualche bene o contento Avrà fors'altri; a me la vita è male. O greggia mia che posi, oh te beata, 105 Che la miseria tua, credo, non sai! Quanta invidia ti porto! Non sol perché d'affanno Quasi libera vai; Ch'ogni stento, ogni danno, 110 Ogni estremo timor subito scordi; Ma più perché giammai tedio non provi. Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe, Tu se' queta e contenta; E gran parte dell'anno 115 Senza noia consumi in quello stato. Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra, E un fastidio m'ingombra La mente, ed uno spron quasi mi punge Sì che, sedendo, più che mai son lunge 120 Da trovar pace o loco. E pur nulla non bramo, E non ho fino a qui cagion di pianto. Quel che tu goda o quanto, Non so già dir; ma fortunata sei. 125 Ed io godo ancor poco, O greggia mia, né di ciò sol mi lagno. Se tu parlar sapessi, io chiederei: Dimmi: perchè giacendo A bell'agio, ozioso, 130 S'appaga ogni animale; Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale? Forse s'avess'io l'ale Da volar su le nubi, E noverar le stelle ad una ad una, 135 O come il tuono errar di giogo in giogo, Più felice sarei, dolce mia greggia, Più felice sarei, candida luna. O forse erra dal vero, Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero: 140 Forse in qual forma, in quale Stato che sia, dentro covile o cuna, È funesto a chi nasce il dì natale.