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Prefazione

 

 

L’immagine che Cousteau ha fornito dell’America degli anni ’20 e ’30 sarebbe già sufficientemente inquietante se non avessimo la certezza che, dagli anni ’60, la situazione si è ulteriormente degradata. Gli stessi che allora, pur detenendo il potere reale, in massima parte non erano ammessi nei salotti della buona società, oggi sono loro la buona società. L’incredibile numero dei loro figli negli staff presidenziali, numero che con Clinton ha raggiunto percentuali, se non bulgare, quantomeno di assoluta preminenza (oltre il 50%), il dominio incontrastato ed incontrastabile della finanza privata e pubblica, primo fra tutti il feudo della Federal Reserve, l’egemonia piena ed assoluta sui mezzi d’informazione e sul mondo dello spettacolo con il conseguente condizionamento dell’opinione pubblica, un tempo americana, oggi mondiale, la dicono lunga su chi realmente governi gli USA.

Detto questo, se non fosse per l’acutizzazione che questo fenomeno ha avuto dall’epoca della Nuova Frontiera di kennediana memoria in avanti, il libro di Cousteau potrebbe essere stato scritto in questi nostri convulsi anni. Basterebbe poco. Sarebbe sufficiente cambiare pochi nomi, variare qualche data e l’affresco riacquisterebbe la sua smagliante e, al tempo stesso, struggente attualità.

L’America ebraica è lo spaccato di una nazione, di un subcontinente che l’autore, per esservi a lungo vissuto, ben conosceva. L’uomo era schietto, di una franchezza talvolta brutale, non nascondeva il suo pensiero dietro a dei pudichi forse, né attenuava il peso dei suoi giudizi con mille condizionali. Chi, oggi, in un momento storico in cui il politically correct è elevato al rango di religione ed una polizia del pensiero, peggiore della Santa Inquisizione, fa il possibile e l’impossibile per salvaguardarlo, oserebbe dire quello che Cousteau, il duro del Je suis Partout, ha osato scrivere?

Chi, in un’epoca a tal punto confusa ed ipocrita che i DS, in angosciante simbiosi con AN, affermano di sentirsi americani, e i rifondati, nella persona del loro segretario politico, si dichiarano ebrei, oserebbe alzare la voce?
Chi mai oserebbe replicare alla gentile signora Fallaci che i morti delle Twin Towers non sono né per quantità, né per qualità superiori ai morti di Hiroshima, di Dresda o di Amburgo?
Chi, oggi, oserebbe dire al presidente Bush che, in definitiva, gli americani hanno solo trangugiato un cucchiaino di quella stessa medicina da loro generosamente dispensata a mezzo mondo? Chi, oggi, in un pubblico dibattito oserebbe ricordare ai vari potentati quel vecchio adagio che parla di semine e di raccolti, di vento e di tempesta?

Ecco, se qualcuno osasse farlo questi sarebbe un novello Cousteau! Sarà però ben difficile trovarlo.

Il popolo eletto è amabilmente schivo, ambisce governare, ambisce arricchirsi, cova e realizza i suoi piani e le sue vendette, ma non gradisce alcuna pubblicità.
Chi osa contravvenire a questo desiderio, meglio sarebbe definirlo diktat, chi osa turbare la sua tranquillità, non quella dell’animo, ma quella ben più terrena che è conditio sine qua non per la realizzazione di affari, puliti o sporchi che siano, sa a cosa va incontro.
Tutto ha un costo nella vita. Tutto, anche e soprattutto le idee.
Le idee, le idee sconfitte manu militari poi, sono quelle che pagano il prezzo più alto.

 

 

 

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