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News: Cosa non si fa per amore

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Bertolucci in un interno come nell'"Ultimo tango"

A distanza di sette film e di un quarto di secolo (fa impressione dirlo di un regista che continua a sembrare giovane, ma è proprio così) Bernardo Bertolucci si lascia alle spalle i film-saga, l'esotismo, l'altrove e gli altri tempi, le produzioni miliardarie, e colpisce al cuore con un piccolo film, L'assedio, un Kammerspiel a due personaggi e poche comparse, che si svolge a Roma, oggi - anche se nel racconto di James Lasdun che lo ha ispirato, e che si può leggere nella raccolta pubblicata da Garzanti, si svolge a Londra.
    Un bel racconto, asciutto, austero, senza fronzoli - come sa scriverne Lasdun. E si capisce che Bertolucci sia rimasto affascinato dalle possibilità di questa storia che si svolge in sostanziale claustrofobia, un po' - fatti tutti i distinguo del tempo che passa e della assai diversa temperatura emotiva - come "Ultimo tango a Parigi", con due personaggi a confrontarsi e a sviluppare il loro rapporto in uno spazio chiuso e, in questo caso, altamente simbolico dei loro rapporti: in una stanzetta al pianterreno lei, Shandurai, la ragazza africana con un tragico passato arrivata a roma a lavorare come cameriera e a studiare medicina, lui, Mr. Kinski, l'inglese ricco e nevrotico, il pianista che suona solo per sé e non osa esibirsi, ai piani alti di un palazzetto cadente e bellissimo attaccato alla sclinata di Trinità dei Monti.
    Con un tocco di follia che è parente del "Preferirei di no" di Bartleby lo scrivano - e cioè l'attaccarsi a una frase come a una regola di vita - Mr. Kinski, presto innamoratosi di Shandurai, quando si sente rispondere dalla ragazza che può fare solo una cosa per lei, tirare fuori suo marito dalla prigione in cui l'ha sbattuto il regime dittatoriale del suo paese, risponde coerentemente e silenziosamente alla richiesta, e comincia a spogliarsi di tutto quello che ha - paccottiglia d'epoca, opere d'arte, e alla fine, con un sacrificio autolesionista e forse liberatorio, persino il pianoforte - per ottenere questo scopo.
    Shandurai che ogni giorno spolvera e pulisce la casa, registra silenziosamente la progressiva sparizione degli oggetti - ma riesce a darle un significato solo quando trova una lettera indirizzata a Kinski dall'Africa. Silenziosamente, quando apprende che il marito è stato finalmente liberato, la sera che precede il suo arrivo, scivola nel letto di Kinski - per amore, per gratitudine, per tener fede a una paradossale sfida. E il campanello che annuncia il tanto atteso arrivo suonerà a lungo prima di ottenere risposta.
    Bertolucci muove il duo di attori - la graziosissima, severa, nobile Thandie Newton, il nevrotico, gentile David Thewlis, molto più controllato qui, e molto più credibile, che in tutti i suoi fim precedenti - sullo sfondo della vecchia casa, nei contrasti di luci e di ombre dei diversi piani, secondo una partitura fatta di molti silenzi, di molte cose non dette e di tanta musica - dai Mozart e i Grieg suonati da Kinski ( e, nella realtà da Stefano Arnaldi) ai ritmi africano amati da Shandurai - che diventa il modo di rifiutarsi e poi di comunicare dei personaggi. Il loro rapporto di poche parole e di sfide reciproche è la cosa più bella di un film pudico e intenso, che cede un po', invece, quando esce di casa e prende un'intonazione necessariamente piuù realistica - anche se continua a dimostrare che con pochi soldi e molto gusto si possono dissolvere i confini tra cinema per la tv e il grande cinema.

Irene Bignardi da La repubblica del 6 febbraio 1999