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Una giornata al mare

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Questo racconto, come molti altri che ho avuto occasione di scrivere, tratta di eventi che mi sono accaduti in un passato non molto remoto.
Storie che si ostinano a comparire nella memoria, e che io non voglio cancellare.
Sono fantasie che hanno avuto la pretesa di diventare reali, e che, nel racconto, hanno la uguale pretesa di tornare ad essere fantasie.

Era una giornata di sole cocente. Il piccolo ombrellone sotto il quale mi trovavo si stava sciogliendo come un gelato.
Di fronte a me c'erano alcuni ragazzi che prendevano il sole, ansimanti, per via di una estenuante partitella a calcio. Ero subissata dalla noia, avvolta da una sensazione afosa che mi stringeva anche l'anima. Quel caldo stava penetrando i miei pensieri.
Mi tolsi la parte superiore del costume e cominciai ad imbrattarmi il seno di crema bianca, a protezione due.
Ero già molto abbronzata, ed il segno del costume appariva visibilissimo sulla mia carnagione bianco latte.
I ragazzi mi stavano osservando e cercavano di non farsi scorgere.
Non erano italiani; blateravano una lingua strana e veloce, che non riuscivo ad afferare. Dal tono in cui parlavano potevo supporre che l'argomento delle loro discussioni fossero le mie tette; non lo seppi mai.
Dopo un po' che mi stavano osservando uno dei ragazzi afondò la mano in una capiente borsa da spiaggia, e ne estrasse una macchina fotografica. Giocavano a fotografarsi, ed io ero lo sfondo delle foto.
Metà in ombra e metà nuda, decisi di spostarmi al sole.
Bagnai i piedi al limite della battigia, poi mi rimisi il pezzo superiore del costume e mi tuffai nell'acqua gelida.
Dovevo scaricare un po' di tensione, e poi avevo paura che Luca, il ragazzo con cui stavo in vacanza, mi potesse vedere mentre venivo fotografata.
Nuotai fino al limite di una isoletta scogliosa e mi sdraiai a prendere il sole in fronte al mare aperto. Le voci della spiaggia si perdevano in lontananza, e non c'era più nulla, nei miei pensieri, se non qualche onda pacata che mi bagnava i piedi.
Dopo un po', quando ero quasi appisolata e le onde non si sentivano più, avvertii alcune voci avvicinarsi. I ragazzi stavano abbordando la mia isola con un canotto giallo. Dovevo provvedere ad accoglierli.
Tolsi del tutto il costume, lo poggiai di fianco a me, e mi feci appisolata per finta.
Approdarono e mi videro.
Soffocavano le risate per non farsi sentire, e percepivo i loro corpi sedersi atorno a me. Stavo con gli occhi serrati; mi vergognavo un po', ma non ero agitata.
Quel tipo di ragazzi non si prendono più libertà di quanta gliene vuoi concedere. Sarebbe bastato un mio battito di ciglia; avrebbero avuto più paura loro di me.
Per questo stavo attenta a non muovermi.
Ad un tratto mi sentii sfiorare un capezzolo, gentilmente, da un dito freddo e umido di mare, ed io improvvisai un gemito che suscitò molti sospiri. Poi quel dito divenne una mano, sempre leggera, timorosa di svegliarmi.
Lasciai che mi passassero addosso un certo numero di mani; che mi scorressero sopra un certo numero di click fotografici. Feci come per stirarmi e mi svegliai.
Di fronte a me stava un ragazzo che se non era scottato era sicuramente in forte imbarazzo, ma io mi voltai verso il mio costume e lo infilai con disinvoltura.
Stavo per tuffarmi in acqua, per tornare a riva, ma decisi di chiedere un passaggio a quei ragazzi.
Ci intendemmo su un idioma che somigliava non più che vagamente ad un qualcosa di anglofono.
Il più sveglio mi disse che mi avrebbero dato il passaggio volentieri, e mi guardava con gli occhi di chi ha rubato la marmellata.
Io però ormai ero palpata e vestita, e bagnata anche di mare; non avevo più alcun timore.
Tornai a riva con il canotto, e poi mi allontanai dalla spiaggia, noncurante di alcuni loro inviti, maldestri e privi di un idioma comprensibile.
Il giorno dopo sarei partita con Luca alla volta di un luogo desolato, affondato nelle montagne, abitato solo da qualche pope di quella regione.
Feci un ultimo regalo ai ragazzi. Infilai nella loro borsa da spiaggia un recapito al quale spedire le foto che mi avevano scattato.
Non indicai l'indirizzo di casa mia. Gli donai, invece, quello di un mio collega di lavoro, un giovane insegnante di disegno.
Al ritorno dalle vacanze potei spiegare al collega che aspettavo una posta riservata, e che per maggiore sicurezza avevo fornito il suo recapito. Non era un problema. Lui era stralunato, alienato, ma ancor più, era riservato, e non mi domandò neppure che cosa stessi aspettando di tanto riservato.
Una missiva stracolma di foto, di primi piani, un reportage di palpeggiamenti vari, tanti, e più di quanti me ne ricordassi, con tante facce ghignanti e molte mani sulle mie uniche tette. La lettera arrivò dopo un anno, e mi fu consegnata ancora sigillata.
Per un intero anno di scuola avevo pensato che lui tenesse con se, nella sua cartelletta, di fronte ai miei stessi alunni, le mie foto sporche, e che forse, in qualche notte, mi avesse anche disegnata o sognata.
Nulla di tutto ciò. Dopo un anno compresi che non mi aveva mai vista nuda e, forse, è stato meglio così.

P.S.

br>Per quanto afferisce alla veridicità, vera o presunta, di questa storia, posso dire che l'evento narrato appartiene alla memoria di chi scrive. Tuttavia, che questa ragione autobiografica venga stimata per vera o no, ha effettivamente poca importanza. Un racconto non è una cronaca; deve stimolare la fantasia, non registrare un accadimento. E credo personalmente che il confine labile fra erotismo e volgarità stia proprio nel limbo che separa la fantasia dal reale.
Grazie a tutti.

Francesca M.