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Prof. Roberto Mordacci
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    Incontro col Docente di Filosofia Morale e Bioetica

    all'Università Vita-Salute San Raffaele in Milano,

    il Professor Roberto Mordacci

 

 

Intervistatore : Caro prof. Mordacci, Lei insegna Filosofia Morale presso la Facoltà di Filosofia e Bioetica presso la Facoltà di Psicologia (in precedenza, anche a Medicina): sembra un connubio perfetto nel contesto di un’università come la San Raffaele. Può descrivere la struttura e le finalità dei corsi di laurea?

 

Risposta : In effetti, le discipline che insegno costituiscono un naturale trait d’union fra filosofia e scienze biomediche e psicologiche, per cui appare naturale che siano presenti nei tre corsi. Però, è un fatto che nel nostro Paese la bioetica in psicologia è pressoché sconosciuta, mentre in medicina ha faticato molto a imporsi come elemento irrinunciabile del curriculum. Nel caso del nostro Ateneo questa scelta corrisponde all’impronta generale degli studi, che mirano a cancellare i confini disciplinari in ogni tematica in cui sia decisivo uno sguardo autenticamente interdisciplinare; è naturale che la bioetica rappresenti uno dei principali terreni di confronto fra scienza, tecnologia biomedica, psicologia e filosofia. Inoltre, l’idea guida di tutto l’Ateneo è il tentativo di rispondere con una ricerca seria all’interrogativo “Quid est homo?” (il motto dell’Ateneo, tratto dal primo versetto del Salmo 8), inteso come la domanda essenziale per prendersi autenticamente cura delle persone: “curare” significa anzitutto riconoscere la complessità delle dimensioni della vita personale. Non ci si cura dell’uomo senza cercare anzitutto di comprenderlo. Per questo, secondo l’idea del fondatore e Rettore don Verzé, non può esserci un autentico ed efficace studio della medicina senza l’apporto dell’indagine psicologica e della ricerca filosofica.

Il corso di Medicina è fortemente innovativo, con un immediato avvio degli studenti all’incontro con i pazienti in reparto e, al contempo, la cura per gli aspetti umanistici della formazione (bioetica, ma anche filosofia della scienza, storia del pensiero medico, filosofia della medicina). Quello di Psicologia ha una duplice veste: un orientamento clinico, mirante al counseling individuale e di comunità, e uno più di ricerca, al passo con le scienze cognitive e le neuroscienze.

Quello di Filosofia si inserisce in questa vena innovativa, in modo un poco rivoluzionario per il nostro Paese: il triennio mira a formare persone che dispongano degli strumenti culturali critici indispensabili per inserirsi negli ambiti più diversi del mondo del lavoro. Poiché abbiamo verificato che i laureati in filosofia sono ricercati dalle aziende più diverse per la loro flessibilità, per la loro competenza argomentativa, linguistica e culturale, per la loro prontezza logica e creatività, abbiamo cercato di fornire loro alcune competenze anche nei campi socialmente produttivi: nel piano di studi vi sono corsi sull’economia aziendale, sui rapporti fra economia e diritto, sulla politica nelle società pluralistiche, sulla globalizzazione, sulle nuove tecnologie del virtuale, sulla matematica applicata, sulle scienze cognitive, sulla linguistica generale. Le aziende contattate ci hanno chiesto di formare persone che sapessero inserirsi senza timori nelle realtà produttive, e ci stiamo accordando per offrire agli studenti opportunità di stages presso aziende sia prima sia dopo la laurea. Tutto questo, naturalmente, senza dimenticare la formazione sui classici: i corsi si basano per lo più sull’analisi di testi classici del pensiero e tutti gli studenti devono sostenere un colloquio su sei classici fondamentali (dalla Repubblica alla Critica della ragion pura, ma anche Rawls e Schroedinger) per potersi laureare.

I profili di studio sono due: uno denominato Filosofia delle prassi, orientato alle questioni etiche e politiche dell’età contemporanea, l’altro denominato Filosofia della mente e dei linguaggi, centrato sul rapporto scienza-filosofia. Se si dà uno sguardo ai piani di studio, si vede che i corsi previsti trattano tematiche talvolta insolite per un corso di filosofia: la nostra convinzione è che se non si fa così la filosofia è destinata ad essere abbandonata o al più relegata ad un ruolo soltanto museale. Se si vuole, questo è un modo di dare concretezza alla prospettiva in certo senso “olistica” derivante dall’impostazione voluta da don Verzé.

 

 

I : A proposito di prospettiva olistica, cosa pensa in merito alla convinzione di Piovani «che niente possa essere conosciuto in sé e da fermo […]. La conoscenza di un fenomeno in sé è la conoscenza del fenomeno isolato: ma l’isolamento in cui si debba metterlo per conoscerlo è, più che un’astrazione, una astrattezza; per giunta più dannosa che utile, pur sperimentalmente, giacché mai esso esiste isolato, e non vale lavorare a conoscerlo così come mai veramente è» ?

 

R : Direi che non si tratta soltanto di olismo: il pensiero conosce realmente quando si applica alle cose nella loro realtà dinamica, il che significa nella loro concretezza storica. Prendiamo le questioni morali sollevate dalla genetica: pensare di affrontarle una volta per tutte in base ad un’immagine fissista della natura umana significa perdere completamente di vista il problema. Perché ciò che sta capitando è che, progressivamente, non vi è più alcun elemento «naturale» nella condizione umana, nemmeno nel momento aurorale del sorgere della corporeità. Non intervenire geneticamente per modificare una patologia, ove sia possibile, significa scegliere un certo modello normativo di natura umana, non lasciar sussistere l’uomo «quale naturalmente è». E se saremo capaci di modificare le nostre dotazioni standard (aumentare la memoria, incrementare la potenza fisica o la resistenza agli agenti patogeni) non potremo utilizzare alcun argomento del genere: «la responsabilità di modificare la natura umana è troppo grande e le conseguenze troppo imprevedibili per farlo», perché la «natura umana» è già modificata dalla possibilità tecnica di intervenire. Che lo vogliamo o no, abbiamo la responsabilità di guidare il nostro stesso cambiamento. Per questo, ad esempio, occorre comprendere (come già faceva Karl Rahner in tempi non sospetti) il significato della dinamicità della condizione umana, la sua plasticità e, ad un tempo, gli elementi irrinunciabili della sua dignità, le condizioni per l’esercizio autentico della libertà e della razionalità.

 

 

I : Si legge sul sito dell’Università San Raffaele che l’obiettivo formativo è il superamento degli schemi antiquati per dare maggiore «concretezza e pertinenza alla filosofia rispetto alle questioni del nostro tempo». E che, dunque, bisogna concepire la «filosofia come problematizzazione di tutte le forme del fare». Lei ritiene che il peso odierno della tecnica debba spostare in modo deciso la riflessione filosofica sul tema della prassi ? E in quali termini ?

 

R : Decisamente la tecnica è la questione dell’Occidente, almeno da un secolo. Ma occorre appunto leggere la tecnica in modo determinato, senza affrettate generalizzazioni (come accade quando si dica «la Tecnica» intendendo il destino dell’Occidente). La tecnica entra in ogni prassi: il punto decisivo è che essa interviene non soltanto come strumento ma come fattore plasmante della prassi stessa. La medicina odierna è una prassi essenzialmente tecnologica, e questo modifica alcuni dei suoi contenuti definitori, alcuni suoi «valori interni» (per usare l’espressione di MacIntyre). Ora, la questione è che cosa, in ogni prassi, intendiamo giustificatamente far valere come senso della pratica, perché solo così possiamo dare un ordine all’uso delle tecnologie, e non esserne usati. Faccio un esempio, ancora in ambito biomedico: la fine della vita è spesso ostaggio di una logica perversa, che immagina la necessità morale di fare «tutto il possibile» per mantenere in vita il paziente, di impiegare ogni strumento disponibile per combattere la morte incombente. Così si finisce nell’accanimento terapeutico; e, corrispondentemente, nel tragico equivoco di pensare che l’eutanasia sia il modo per restituire al paziente il dominio sulla propria vita, la restituzione della corporeità dall’esproprio tecnologico. Al contrario, l’eutanasia segue acriticamente dalla logica di una medicina esclusivamente tecnologica: se la sola risposta al dolore e alla malattia è un rimedio tecnicamente efficace, è chiaro che quando questo manca nulla ha più senso. Ma così si è perduta (per sempre) l’opportunità di mettere in atto quelle modalità di accompagnamento del morente che consentirebbero di comprendere, di volta in volta, quali approcci pratici rispettino davvero la dignità della persona.

 

 

I : Cosa pensa dell’affermazione di Toulmin, secondo cui l’etica è stata riportata in vita dalla medicina, che ha avuto il merito di chiamarla fuori dalle inconcludenti riflessioni metateoriche e di invitarla a non sottrarsi alle questioni bioetiche ?

 

R : Toulmin ha senza dubbio in parte ragione, ma non bisogna sottovalutare il fatto che altre questioni, oltre a quelle mediche, hanno sollecitato la filosofia morale a riprendere il lavoro sull’etica normativa e sulle questioni applicate. Penso in primo luogo alla guerra e alla crescente difficoltà di offrirne una giustificazione; penso al movimento dei diritti e alle rivendicazioni di un diverso rapporto fra interesse pubblico e tutela del privato; penso alla crescente consapevolezza dei vantaggi e dei limiti del capitalismo in tema di giustizia, in particolare quando le categorie di pensiero politico prevalente sono quelle utilitaristiche. Non è affatto un caso che A Theory of Justice di John Rawls, uno dei molti libri che hanno fatto rinascere l’etica normativa, sia stato pubblicato nel 1971, in un periodo di fermento sociale e politico relativo anche ad aspetti niente affatto legati a questioni biomediche (che suscitavano animose discussioni negli anni successivi alla Humanae Vitae). Ed è emblematica la dichiarazione di Rawls, nelle prime pagine del libro, di aver voluto, fin dal primo articolo del 1951, articolare una teoria della giustizia alternativa all’utilitarismo e, ad un tempo, più solida dei ricorsi ad hoc a forme di intuizionismo screditate sotto il profilo metaetico. Il limite di questa rinascita, se si vuole, è di aver pensato tali questioni sociali come esclusivamente politiche, nel segno di una discontinuità fra pubblico e privato che, come molti critici liberali hanno sottolineato (Dworkin e Maffettone fra gli altri), è a lungo andare insostenibile.

 

 

I : Lei crede che l’etica debba intervenire nelle questioni sollevate dalla tecnica semplicemente perché, come dice Jonas, «la tecnica è esercizio di potere umano, vale a dire è una forma dell’agire, e ogni agire umano è esposto a un esame morale» ? O piuttosto la natura del suo coinvolgimento possa risiedere anche altrove ?

 

R : La tecnica è oggetto di riflessione morale perché ogni agire umano (a differenza di quello animale) è tecnico. E se l’etica si interroga sul rapporto fra agire, giustizia e bene, essa non può disinteressarsi della tecnica. La cosa curiosa è che oggi si debba talvolta giustificare questa riflessione, come se si trattasse di un’ingerenza in un ambito «sacro», intoccabile. È l’effetto dell’argomento fazioso e sofistico dell’«autonomia della scienza»: è evidente a tutti che la scienza è autonoma quanto al sapere (non ci sono verità vietate), ma è altrettanto evidente che l’esperimento è una prassi e che qui non ha senso parlare di autonomia: sperimentare significa agire e nell’agire è sempre in gioco il bene e il giusto. In verità, la colpa è  anche dei filosofi (e dei teologi): se l’approccio alle questioni di giustizia e bene nell’uso della tecnologia si assume il punto di vista «moralistico» del giudice che assegna bollini di liceità o illiceità alle pratiche in questione è inevitabile che si generi una reazione contraria. Occorre piuttosto cercare di capire quale valore positivo muova la ricerca biomedica o l’impresa tecnologica e mostrare che cosa è coerente con quel valore e, ad un tempo, con il fondamento interno di ogni valore. Se il conoscere è lo scopo della scienza è evidente che esso ha valore perché appartiene a ciò che fa degli uomini qualcosa di diverso dai «bruti» danteschi; ma allora è evidente che perseguire la conoscenza usando altri uomini esclusivamente come mezzi, e non sempre anche come fini in sé, è una contraddizione pragmatica, una negazione del valore della conoscenza. A costo di essere banali: la conoscenza (come il Sabato) è per la persona, non la persona per la conoscenza.

 

 

I : La connessione logica di agire ed etica consente a Jonas di affermare che, proprio in virtù di tale legame «dovrebbe derivare che la mutata natura dell’agire umano richiede anche un mutamento dell’etica». Cioè, è perfettamente legittimo che Agazzi si domandi “Quale etica per la bioetica ? ” ? Qual è il suo pensiero al riguardo  ?

 

R : Direi che non è vero che l’etica tradizionale sia divenuta inservibile. D’altra parte non lo sostiene nemmeno Jonas, che nei saggi raccolti in Tecnica, medicina ed etica applica per lo più alle questioni biomediche una versione un po’ eclettica di una teoria dei diritti di ispirazione kantiana, che è molto tradizionalista e non ha niente a che vedere con il «principio responsabilità». Il potere tecnologico ha creato la possibilità di mettere a rischio la stessa esistenza della vita umana sulla terra: questo è effettivamente un problema inedito, per il quale occorrono strumenti concettuali meglio capaci di tenere conto degli effetti delle nostre scelte sul futuro. Ma i problemi quotidiani, in cui non ne va della sopravvivenza del pianeta, continuano ad esistere e applicare sistematicamente l’euristica della paura ci condurrebbe, con Jonas, direttamente all’ecodittatura. Inoltre, è tutto da dimostrare che le teorie tradizionali non sappiano tenere adeguatamente conto del futuro: che cos’è l’utilitarismo se non un’etica pensata in gran parte in questa ottica “tecnologica”? E siamo sicuri che un’etica che ripensasse il significato profondo del rispetto (nel senso del riconoscimento dell’altro come persona e perciò come fine in sé) non ci offrirebbe strumenti adeguati per l’età tecnologica ?

 

 

I : Qual è la sua opinione riguardo ad una normatività morale ? Quali sono le possibilità di una etica sostantivistica, normativa dinnanzi ad un relativismo, ad un pluralismo etico, secondo lei ?

 

R : Questo è in effetti il tema centrale della mia ricerca. Mi pare si possa dire almeno questo: il relativismo etico mostra la sua debolezza quando è messo di fronte alla necessità di giustificare una scelta pubblica. Se nessun argomento vale più di altri, perché sono tutti validi (o invalidi), allora nessuna scelta pubblica può essere ritenuta ragionevole. Il che vuol dire che essa dipenderà esclusivamente dai rapporti di forza. Ma la conseguenza di questa strategia è una forma di dominio, più o meno larvata, di una parte sulle altre, il che significa che il relativista minoritario non può più difendersi dai soprusi della maggioranza: non importa che le ragioni di quest’ultima non siano «vere»; esse hanno autorevolezza proprio perché nessuna ragione morale è «vera», ma una ragione morale «vale» se, di fatto, si impone. E allora addio pluralismo e addio tolleranza. In effetti, il relativismo è la tomba della tolleranza. Questo è un argomento elenchico, per confutazione.

Vi è poi un argomento più propositivo: in realtà, nessun soggetto agente si accontenterebbe mai, nelle scelte morali davvero importanti, di una forma di relativismo. A chi può interessare seguire convinzioni morali che egli ritenesse vere solo per se stesso ? Quando operiamo una scelta, noi implicitamente adottiamo le ragioni che la giustificano come valide, ovvero credibili almeno per soggetti nella nostra posizione e con la nostra storia. Non possiamo pensare che nessuno sarebbe in grado di comprendere e, auspicabilmente, condividere le nostre ragioni. Le sole ragioni che ci interessano moralmente, come suggerisce Christine Korsgaard, sono «le ragioni che possiamo condividere», quelle che proporremmo ad altri agenti ragionevoli come plausibili giustificazioni del nostro operato. Se poi uno non fosse interessato affatto alla giustificazione, questi sarebbe non un relativista ma un amoralista. E vivere da amoralista non è affatto facile, come ha mostrato Bernard Williams: rifiutare in toto il punto di vista morale fa di noi degli psicopatici, perché comporta rinunciare ad agire in base a ragioni che altri possano condividere o almeno non rifiutare, comporta divenire solipsisti radicali. Non potrei nemmeno agire in buona fede con me stesso, perché non potrei nemmeno ritenere di dovere una giustificazione a me stesso come un altro per ciò che faccio. Significa rinunciare a pensare che agire abbia un senso decifrabile.

Al contrario, noi siamo interessati all’orizzonte della giustificazione, cioè a poter ritenere le nostre ragioni per agire almeno in linea di principio comprensibili e condivisibili da altri agenti ragionevoli. E ciò vale anche nei confronti di noi stessi: ci è spontaneo pensarci «come una persona fra le altre» per usare l’espressione di Thomas Nagel, cioè come soggetti certamente unici e irripetibili ma al tempo stesso appartenenti a una comune esperienza umana, nella quale orientarsi fra i valori appare come un’impresa intrinsecamente dialogica. Per questo ritengo che siano errate le letture dell’imperativo categorico che lo interpretano come un test monologico: soprattutto la seconda formulazione (agisci in modo da considerare l’umanità, nella tua persona come in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai come semplice mezzo) mette chiaramente in campo la necessità di un confronto reale con ogni altra persona per comprenderne gli scopi, cioè che cosa significhi per lei essere trattata come fine e non come mezzo. Il rispetto per l’umanità è reale solo quando si esercita nei confronti di ogni persona concreta, il che implica il tentativo, almeno virtuale, di confrontarsi con le ragioni degli altri in una dialettica razionale.

Ora, questa dinamica di confronto razionale è, direi, la sorgente della normatività morale. Se si vuole, è la dinamica della ragion pratica in quanto tale, ma occorre ricordare che questa non saprebbe esercitarsi, in concreto, se non vivesse quotidianamente del confronto effettivo con le ragioni altrui, pur senza mai ridursi alla semplice ricerca di un accordo o di un consenso. La dialettica pratica è illimitata e le forme del rispetto non sono affatto definite da ciò che gli altri ci permettono di fare loro: è una costante ricerca quella di definire che cosa significhi, di volta in volta, considerare la nostra libertà e razionalità incarnate (le nostre persone) come un fine in sé. Se l’altro mi chiede di essere ucciso ciò non significa affatto che io sia autorizzato a farlo: devo chiedermi se non è contraddittorio richiedere liberamente la soppressione della propria libertà. Se, come credo si possa mostrare, vi è qui effettivamente una potenziale contraddizione, una richiesta del genere non ha autorità morale e dobbiamo mostrare il nostro rispetto per l’altro in altri modi (per esempio, lenendo i suoi dolori anche a costo di abbreviargli la vita).

 

 

I : È d’accordo con l’affermazione di Piovani, secondo cui «la mancanza di valore è nella indifferenza non nella differenziazione, combattiva e non. Se l’altro vive secondo valori diversi dai miei, non vuol dire che non ci sia nessun valore, vuol dire che ci sono più valori». Il vero caos morale starebbe, quindi, non nella pluralità dei valori, ma nel vuoto assiologico, nell’anomia ?

 

R : Mi pare evidente. La pluralità dei valori, o meglio dei sistemi di valore, è una ricchezza proprio perché è necessario il confronto, la differenza, per esercitare il pensiero morale critico. Senza differenze morali la nostra morale sarebbe totalmente in malafede. L’errore sta nel pensare che se c’è pluralismo allora c’è relativismo. Il che è falso sia perché il relativismo è falso (come ho cercato di dire – per accenni – prima) sia perché il pluralismo non comporta affatto il relativismo, bensì il suo contrario: non si possono definire le posizioni morali altrui come «differenti» dalle nostre se non le possiamo anzitutto comprendere. Ma comprenderle autenticamente comporta intuirne la pretesa di validità, la «quota di ragionevolezza», la pertinenza per un certo modo di vita. Possiamo continuare a non condividere una certa regola (per esempio, l’infibulazione per le giovani donne in Etiopia o in Somalia) soltanto se la giudichiamo sbagliata, non semplicemente «altra». E questo comporta che si immagini un terreno comune di confronto fra le opposte ragioni: per esempio, l’idea che il rispetto per l’integrità delle persone (e l’idea che anche le giovani donne africane siano persone in senso pieno), sia un principio irrinunciabile.

 

 

I : Lei ritiene che il vero riscatto della morale e le vere responsabilità a cui è chiamata risiedano nel suo coinvolgimento da parte della tecnica, della medicina, della biologia o, piuttosto, nel suo poter, nel suo dover aprirsi alla quotidianità ? Piovani asserisce che «l’attività morale non appartiene soltanto a momenti-limite, in cui possa culminare, talvolta, una dubbiosità costretta a risolversi in una decisione ardua o dolorosa, ma domina il quotidiano, continuamente operando per differenziare le differenze, per allarmare le inerzie. L’inquietudine del valore sta dentro l’opacità della giornata più comune; s’insinua improvvisa nell’automaticità di una routine; incrina lo spessore più fitto di un comportamento ottuso; turba, inattesa, la sonnolenza del conforme o s’inserisce tra le sue pieghe». Ha ragione Giovanni Berlinguer nel volere, un po’ come Peter Singer, distinguere una “bioetica di frontiera” da una “bioetica quotidiana”, quest’ultima altrimenti sottovalutata ?

 

R : Non ho mai pensato che la distinzione fra quotidiano e di frontiera fosse veramente utile. Le questioni apparentemente più tecnologiche si manifestano nella vita quotidiana delle persone; e d’altra parte significa avere una scarsissima sensibilità morale pensare che le scelte più frequenti siano moralmente neutre. Il fatto è che un’eccessiva enfasi sulla tecnica e sulle sue «sfide» ci porta a pensare che solo in quei casi si debba esercitare la riflessione morale. Il che è ovviamente falso. Ed è falso anche che i due domini, quotidiano e di frontiera, rispondano a questioni o logiche diverse. La nostra vita non ha compartimenti stagni e ci mancherebbe che ci risvegliassimo soltanto al risuonare di qualche dilemma tecnologico.

 

 

I : Caro professore, nel ringraziarla per la cortese disponibilità, mi congedo augurandole ogni successo per il suo futuro non solo professionale, e augurandomi di poterla nuovamente avere come gradito ospite della nostra rivista, per un altro interessante incontro.

 

R : Grazie a voi, e buon lavoro.

 

 

 

Il Prof. Roberto Mordacci

insegna Filosofia Morale e Bioetica

all'Università Vita-Salute San Raffaele in Milano

 

 

A cura di Massimo Vittorio

 

11/03/03

 

 

 

 

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Last modified: 03/30/04