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Introduzione a Schulz
 

(Ultima Striscia)
Dalla prefazione di Umberto Eco al libro: Charles M. Schulz - "Arriva Charlie Brown!" - ed. Baldini&Castoldi (distribuito in edizione limitata e fuori commercio nel 2001)
Non beve, non fuma, non bestemmia. È nato nel 1923 nel Minnesota. Vive modestamente ed è "lay preacher" in una setta detta la Chiesa di Dio; è sposato e ha, credo, quattro bambini. Gioca a golf e a bridge e ascolta musica classica. Lavora da solo. Non ha nevrosi di alcun genere. Quest'uomo dalla vita cosi sciaguratamente normale si chiama Charles M. Schulz. È un Poeta. Quando dico "Poeta" lo dico per fare arrabbiare qualcuno. Gli umanisti di professione, che non leggono i fumetti; e coloro che accusano di snobismo gli intellettuali che fingerebbero di amare i fumetti. Ma sia bene inteso: se "poesia" vuole dire capacità di portare tenerezza, pietà, cattiveria a momenti di estrema trasparenza, come se vi passasse attraverso una luce e non si sapesse più di che pasta sian fatte le cose, allora Schulz è un poeta. Se poesia è individuare caratteri tipici in circostanze tipiche, Schulz è un poeta. Se poesia è far scaturire da eventi di ogni giorno, che siamo abituati a identificare con la superficie delle cose, una rivelazione che delle cose ci faccia toccare il fondo, allora, una volta ogni tanto, Schulz è poeta. E se poesia fosse soltanto trovare un ritmo privilegiato e su di quello improvvisare in una avventura ininterrotta di variazioni infinitesime, così che dall'incontro altrimenti meccanico di due o tre elementi possa scaturire un universo sempre nuovo, cantato senza pause, ebbene anche in questo caso Schulz è poeta. Più di tanti altri.
Ma poi la poesia è queste cose e altre ancora, e non vorremmo impegnarci qui in definizioni estetiche con la mediazione di Schulz. Se diciamo che Schulz è un Poeta lo facciamo anzitutto come sfida e presa di posizione. L'affermazione "Schulz è un poeta" vale per "noi amiamo incondizionatamente, fervidamente, ferocemente, intollerantemente Charlie M. Schulz e non permettiamo che sia discusso, chiunque affermi il contrario o è un malvagio o è un illetterato". Ecco. Sono cose che andavano dette, se no il lettore non comprenderebbe le notti spese da un comitato di traduttori che hanno dedicato a queste "strips" la passione e l'acribia che Max Brod dedicava ai manoscritti di Kafka, Valery Larbaud alla versione francese dello "Ulysses" e padre Van Breda ai foglietti stenografati di Edmund Husserl: non comprenderebbero le discussioni filologiche sul più esatto equivalente italiano del celebre "Good Grief!" (poi divenuto "Misericordia!") e sulla espressione che rendesse nel modo più pieno tutta la carica di disperazione e passività che si sottende a "I can't stand it" (che poi non si è potuto tradurre in modo univoco, caso per caso), e gli arzigogoli ermeneutici su fumetti che bastava toccare per far esplodere nell'aria come bolle di sapone (loro e la loro Poesia e tutto) - e poi le lunghe esauste pause nelle quali, essi, gli esperti, discutevano sulla vexata quaestio circa i rispettivi nome e cognome di Flash Gordon, che alcuni disinvoltamente chiamano Gordon Flash; e se verbigrazia i momenti altissimi dell'epoca disneyana dello zio Volabasso superassero, nella loro forma barbara e primitiva, quelli della più distesa epopea di Grillo Grifi - e ancora sulla opportunità di accludere a questa prima edizione italiana dei "Peanuts" una appendice critica con le varianti, un apparato di note esplicative, una bibliografia ragionata trilingue e, sia pur bluffando, ma per dare al lettore sprovveduto il senso della grandezza dell'impresa, una collazione di alternative interpretative offerte e dalla Scuola di Tubinga e da quella di Bratislava, ben nota per i suoi "Beiträge" fondamentali per una esatta lettura dello Schulz - e via via via, le fantasie prendevano peso e consistenza, si finiva per crederci, e perché no? Charlie Brown non è un momento della Coscienza Universale, un Eroe del Nostro Tempo, un Leopoldo Bloom in sedicesimo, un Tipo Positivo, il nostro Everyman tascabile e portativo, il Filottete suburbano dei paperbacks, un Geremia della Bibbia a strisce che talora apocrifi prezzolati ci han presentato in traduzioni ingannevoli e malevole minando alle basi la nostra fede, così da richiedere una legione di Erasmi a ristabilire e le lezioni e le chiose? E adesso basta. Chi doveva offendersi si è offeso ed è andato via. Sediamoci un attimo e ragioniamo. Vi dirò in breve perché i "Peanuts" di Charlie M. Schulz sono una cosa importante, vera, tenera e gentile.
Non è vero che i fumetti siano un innocuo divertimento che, fatto per bambini, anche gli adulti possano apprezzare dopo pranzo, seduti in poltrona, per consumare le loro quattro evasioni senza danno e senza acquisti. L'industria della cultura di massa fabbrica i fumetti su scala internazionale e li diffonde ad ogni livello: davanti ad essi (come davanti alla canzone di consumo, al libro giallo e alla trasmissione televisiva) muore l'arte popolare, quella che sale dal basso, muoiono le tradizioni autoctone, non nascono più leggende raccontate intorno al fuoco, e i cantastorie non vengono più a mostrarvi le loro tavole narrative durante le feste sull'aia o sulla piazza. Il fumetto è commissionato dall'alto, funziona secondo tutte le meccaniche della persuasione occulta, suppone nel fruitore un atteggiamento di evasione che stimola immediatamente le velleità paternalistiche dei committenti. E gli autori per lo più si adeguano: così il fumetto, nella maggior parte dei casi, riflette l'implicita pedagogia di un sistema e funziona come rafforzamento dell'occulto dei miti e dei valori vigenti. "Dennis the Menace" ribadirà l'immagine in definitiva felice e irresponsabile di una buona famiglia middle class che abbia fatto del naturalismo deweyano un mito educativo pronto ad essere frainteso per produrre nevrotici a catena; e la "Little Orphan Annie" (come hanno mostrato inchieste sociologiche insospettabili; e si veda lo studio di Lyle W. Shannon) diventerà per milioni di lettori la supporter di un maccartismo nazionalistico, di un classismo paleocapitalista, di un filisteismo piccolo borghese pronto a celebrare i fasti della John Birch Society; "Jiggs and Maggie" (Arcibaldo e Petronilla) ridurranno il problema sociologico del matriarcato americano a un semplice fatto individuale; "Terry e i Pirati" si è prestato con costanza ad una educazione nazionalistico-militaristica delle giovani leve statunitensi; "Dick Tracy" ha portato il sadismo del giallo d'azione non soltanto a portata di tutti attraverso le trame, ma attraverso il segno stesso di una matita complessatissima e sanguinaria (e non conta che sul piano del gusto abbia svecchiato di molto il palato del proprio pubblico) e "Joe Palooka" continua a cantare il suo inno al prototipo di yankee integerrimo e candido, lo stesso su cui fan leva tutte le persuasioni elettorali a sfondo conservatore. Così anche la protesta, e la critica del costume, quando c'è stata, è stata contenuta con garbo nell'ambito del sistema e ridotta a dimensioni favolistiche. Sappiamo tutti che la figura di Paperon de' Paperoni riassume tutti i vizi di un capitalismo generico fondato sul culto del denaro e sullo sfruttamento dei propri simili a fini esclusivi di profitto; lo stesso nome che il personaggio assume nell'originale, Uncle Scrooge (col suo richiamo al vecchio avaro del "Racconto di una notte di Natale" di Dickens), serve a indirizzare questa critica indiretta contro un modello di capitalismo ottocentesco (fratello dello sfruttamento dei piccoli in miniera e delle punizioni corporali nelle scuole) che ovviamente la società moderna non teme più e che chiunque può permettersi di criticare. E se i celebri fumetti di Al Capp sviluppano attraverso le avventure di Li'l Abner, una critica dei tics e dei miti americani, talora con indomita cattiveria - penso alla satira di una società opulenta fondata sul consumo che la storia dello Shmoo ha così gustosamente protratto per un certo tempo - tuttavia anche questa critica è sempre tenuta su uno sfondo indistruttibile di bonomia e di ottimismo, mentre il teatro degli avvenimenti, la cittadina di Dogpatch, nella sua dimensione "strapaesana" riduce costantemente il mordente dei vari attacchi a situazioni in origine concrete e preoccupanti.
Allora dovremo dire che il fumetto, chiuso nelle regole ferree del circuito industriale-commerciale della produzione e del consumo, è destinato a dare solo i prodotti standard di un paternalismo talora inconscio e talora programmato? Che se ha elaborato, come ha elaborato, moduli stilistici, tagli narrativi, proposte di gusto senz'altro originali e stimolanti per la massa che ne usava, tuttavia sfrutterà sempre e comunque di queste spregiudicatezze per una costante funzione di evasione e di mascheramento della realtà? Ora anche solo in teoria potremmo rispondere che, da quando mondo è mondo, arti maggiori e arti minori hanno potuto prosperare quasi sempre solo nell'ambito di un sistema che permetteva all'artista un certo margine di autonomia in cambio di una certa percentuale di ossequenza ai valori stabiliti: e che tuttavia, in seno a questi vari circuiti di produzione e di consumo, si sono visti agire degli artisti che, usando delle occasioni concesse a tutti gli altri, riuscivano a mutare profondamente il modo di sentire dei loro consumatori svolgendo all'interno del sistema, una funzione critica e liberatoria. Come al solito è questione di genialità individuale: saper elaborare un discorso talmente incisivo, limpido, efficace da riuscire a padroneggiare tutte le condizioni entro le quali il discorso, per forza di cose, si muove. Credo che in questo senso il fumetto ci abbia offerto due vie maestre. La prima è quella di cui il rappresentante più recente, forse il maggiore, è Jules Feiffer: la satira dell'autore de "Il complesso facile" e "Passionella" è cosi precisa, coglie con tanta esattezza di contorni i mali di una società industriale moderna traducendoli in altrettanti tipi esemplari, pone nella scoperta di questi tipi tanta umanità (cattiveria e pietà al medesimo tempo) che qualsiasi sia il giornale in cui queste storie appaiono, qualsiasi sia il successo che loro arride (anche se tutti le accettano sorridendo, anche coloro che dovrebbero esserne offesi e terrorizzati) questo non toglie nulla alla loro forza. Una storia di Feiffer, una volta pubblicata, non può più essere esorcizzata; una volta letta rimane nella mente e vi lavora silenziosamente.
C'è poi una seconda via, e per esemplificarla vorrei scegliere un fumetto ormai classico, il "Krazy Kat" di George Herriman, nato tra il 1910 e il 1911 e finito nel 1944 con la morte dell'autore. Le "dramatis personae" erano tre: un gatto, dal sesso imprecisato, probabilmente una gatta; un topo, Ignatz Mouse; un cane in funzione di poliziotto, Offissa Pup. Un disegno singolare per certe sue sforate surrealistiche, specie nei paesaggi lunari e improbabili, fatti apposta per sottrarre la vicenda ad ogni verosimiglianza. La situazione? Il gatto ama follemente il topo e il topo, malefico, odia e tiranneggia il gatto, di preferenza colpendolo alla testa con un mattone. Il cane cerca in ogni momento di proteggere il gatto, ma il gatto disprezza questo suo amore senza riserve; il gatto adora il topo ed è sempre pronto a giustificarlo. Da questa situazione, assurda e senza particolari pimenti comici, l'autore traeva una serie infinita di variazioni basandosi su un fatto strutturale che è di fondamentale importanza per la comprensione del fumetto in genere: la breve storia giornaliera o settimanale, la striscia tradizionale, anche se racconta un fatto che si conchiude nel giro di quattro vignette, non funziona presa a sé, ma acquista ogni sapore solo nella sequenza continua e testarda che si snoda, striscia dopo striscia, giorno per giorno. In "Krazy Kat" la poesia nasceva da una certa cocciutaggine lirica dell'autore che ripeteva all'infinito la sua vicenda, variando sempre sul tema, e solo a quel patto la protervia del topo, la pietà senza ricompense del cane e il disperato amore del gatto raggiungevano quella che a molti critici parve una vera e propria condizione di poesia, come una ininterrotta elegia fatta di un dolente candore. In un fumetto del genere lo spettatore, non sollecitato dalla gag straripante, dal riferimento realistico e caricaturale, da un qualsivoglia appello al sesso o alla violenza, sottratto quindi alla routine di un gusto che lo portava a cercare nel fumetto il soddisfacimento di determinate esigenze, scopriva così la possibilità di un mondo puramente allusivo, un piacere di tipo "musicale", un gioco di sentimenti non banali. Si riproduceva in una certa misura il mito di Sheerazade: la concubina presa dal Sultano per essere usata nel giro di una notte e poi eliminata incomincia a raccontare una storia e il Sultano dimentica la donna per la storia, scopre insomma un altro mondo di valori. La prova migliore che il fumetto è prodotto industriale di puro consumo è che, anche se un personaggio viene inventato da un autore geniale, dopo un poco l'autore viene sostituito da una "equipe", la sua genialità si fa fungibile, la sua invenzione prodotto da officina. La prova migliore che "Krazy Kat", in forza di quella sua grezza poesia, riuscì a dominare il sistema, è che alla morte di Herriman nessuno ne volle raccogliere l'eredità e gli industriali del fumetto non seppero forzare la situazione.
Il mondo dei "Peanuts" è un microcosmo, una piccola commedia umana sia per il lettore candido che per quello sofisticato. Al centro sta Charlie Brown: ingenuo, testone, sempre inabile e quindi votato all'insuccesso. Bisognoso, sino alla crisi, di comunicazione e "popolarità", e ripagato dalle bambine matriarcali e saccenti che lo attorniano col disprezzo, le allusioni alla sua testa rotonda, le accuse di stupidità, le piccole malvagità che colpiscono a fondo. Charlie Brown impavido ricerca tenerezza e affermazioni da ogni parte: nel baseball, nella costruzione di aquiloni, nei rapporti con Snoopy il suo cane, nei contatti di gioco con le ragazze. Fallisce sempre. La sua solitudine si fa abissale, il suo complesso di inferiorità pervasivo colorato dal sospetto continuo, che prende anche il lettore, che Charlie Brown non abbia alcun complesso di inferiorità, ma sia veramente inferiore. La tragedia è che Charlie Brown non è inferiore. Peggio: è assolutamente normale. È come tutti. Per questo marcia sempre sull'orlo del suicidio o quanto meno del collasso: perché cerca la salvezza secondo le formule di comodo propostegli dalla società in cui vive (l'arte di conquistare gli amici, come divenire un intrattenitore ricercato, come farsi una cultura in quattro lezioni, la ricerca della felicità, come piacere alle ragazze… a lui lo hanno rovinato, ovviamente, il dottor Kinsey, Dale Carnegie, Erich Fromm e Lyn Yutang). Ma poiché lo fa con assoluta purezza di cuore e nessuna furbizia, la società è pronta a respingerlo nella persona di Lucy, perfida, sicura di sé, imprenditrice a profitto sicuro, pronta a smerciare una sicurezza del tutto fasulla ma di indubbio effetto (sono le sue lezioni di scienze naturali al fratellino Linus una accozzaglia di improntitudini che a Charlie Brown danno male allo stomaco, "I can't stand it", non posso sopportarlo, geme lo sciagurato, ma con quali armi si può arrestare la malafede impeccabile quando si ha la sciagura di essere puri di cuore?…). Charlie Brown è stato definito "il bambino più sensitivo mai apparso in un fumetto, capace di variazioni di umore di tono Shakespeariano" (Becker) e la matita di Schulz riesce a rendere queste variazioni con una economia di mezzi che ha del miracoloso: il fumetto, sempre pressoché aulico, in una lingua da Harvard (raramente questi bambini scadono nel gergo o peccano di anacoluti) si unisce a un disegno capace di dominare, in ogni personaggio, la minima sfumatura psicologica. Così la quotidiana tragedia di Charlie Brown si graffisce ai nostri occhi con una incisività esemplare.
Per sfuggire a questa tragedia della non integrazione, la tavola dei tipi psicologici offre alcune alternative. Le ragazze vi sfuggono in virtù di una caparbia autosufficienza e alterigia: Lucy (una "geante", da ammirare sbigottiti), Patty e Violet non hanno incrinature; perfettamente integrate (vogliamo dire "alienate"?) trascorrono dalle sedute ipnotiche davanti al televisore, al salto della corda e ai discorsi quotidiani tessuti di cattiveria raggiungendo la pace attraverso l'insensibilità. Linus, il più piccolo, è invece già carico di tutte le nevrosi, l'instabilità emotiva sarebbe la sua condizione perpetua, se con la nevrosi la civiltà in cui vive non gli avesse già offerto i rimedi: Linus ha già dietro alle spalle Freud, Adler e forse anche Binswanger (tramite Rollo May), ha individuato nella copertina da letto della prima infanzia il simbolo di una pace uterina o di una felicità puramente orale… Dito in bocca e coperta (il blanket) appoggiata a una gota (possibilmente, televisore acceso, davanti a cui stare appollaiato come un indiano, ma al limite anche niente, un isolamento di tipo orientale, attaccato ai suoi simboli di protezione), ecco che trova il suo "sentimento di sicurezza". Toglietegli il blanket e ripiomberà in tutte le turbe emotive che lo guatano giorno e notte, poiché - va aggiunto - ha assorbito con l'instabilità tutta la sapienza di una società nevrotica, Linus ne rappresenta il prodotto tecnologicamente più agguerrito. Là dove Charlie Brown non riesce a costruire un aquilone che non precipiti tra le fronde di un albero, Linus rivela improvvisamente, a tratti, abilità fantascientifiche e maestrie vertiginose: costruisce giochi di allucinante equilibrio, colpisce al volo un quarto di dollaro con la cocca della copertina schioccata come una frusta ("the fastest blanket in the West!"). Schroeder al contrario trova la pace nella religione estetica: seduto al suo piccolo pianoforte fasullo da cui trae melodie ed accordi di complessità trascendentale, sprofondato in una sua totale adorazione per Beethoven, si salva dalle nevrosi quotidiane sublimandole in un'alta forma di follia artistica. Nemmeno l'amorosa costante ammirazione di Lucy riesce a smuoverlo (Lucy non può amare la musica, attività poco redditizia di cui non comprende la ragione, ma ammira in Schroeder un vertice irraggiungibile, forse la stimola questa adamantina ritrosia del suo Parsifal in sedicesimo e persegue con cocciutaggine la sua opera di seduzione senza neppure scalfire le difese dell'artista): Schroeder ha scelto la pace dei sensi nel delirio dell'immaginazione. "Non dica male di questo amore, Lisaweta; è buono e fecondo. Vi è dentro nostalgia e melanconia, invidia e un poco di disprezzo e una completa, casta felicità" - non è Schroeder naturalmente, è Tonio Kroeger, ma il punto è questo; e non per nulla i bambini di Schulz rappresentano un microcosmo dove la nostra tragedia e la nostra commedia è tutta rappresentata. Anche Pig Pen avrebbe una inferiorità di cui dolersi: è irrimediabilmente, agghiacciantemente sporco. Esce di casa lindo e pettinato e dopo un secondo le stringhe gli si slacciano, i pantaloni scendono sulle anche, i capelli si intristiscono di forfora, la pelle e gli abiti si coprono di uno strato di fango… Conscio di questa sua vocazione all'abisso, Pig Pen fa della sua situazione un elemento di gloria: "Su di me si addensa la polvere di innumerevoli secoli… Ho iniziato un processo irreversibile: chi sono io per alterare il corso della storia?" - non è un personaggio di Beckett, naturalmente, è Pig Pen che parla, il microcosmo di Schulz raggiunge le estreme propaggini della scelta esistenziale. Antistrofe continua ai patemi degli umani, il cane Snoopy porta all'ultima frontiera metafisica la nevrosi da mancato adattamento. Snoopy sa di essere un cane; ieri era un cane; oggi è un cane; domani forse sarà ancora un cane; per lui, nella dialettica ottimistica della società opulenta che consente salite da status a status, non vi è alcuna speranza di promozione. Talora tenta l'estrema risorsa dell'umiltà ("noi cani siamo cosi umili…", sospira untuoso e consolato), si attacca teneramente a chi gli promette stima e considerazione. Ma di solito non si accetta e cerca di essere ciò che non è: personalità dissociata se mai ve ne furono, gli piacerebbe essere un alligatore, un canguro, un avvoltoio, un pinguino, un serpente... Tenta tutte le strade della mistificazione, poi si arrende alla realtà, per pigrizia, per fame, per sonno, per timidezza, per claustrofobia (che lo assale quando striscia fra le erbe alte), per ignavia. Sarà sopito, mai felice. Egli vive in un apartheid continuo, e del segregato ha la psicologia, dei negri alla zio Tom ha alla fine la devozione, faute de mieux, l'ancestrale rispetto per il più forte. All'improvviso, in questa enciclopedia delle debolezze contemporanee, ci sono, come si è detto, schiarite luminose, variazioni disimpegnate, allegri e rondò dove tutto si pacifica in poche battute. I mostri ritornano bambini. Schulz diventa solo un poeta dell'infanzia. Noi sappiamo che non è vero e facciamo finta di credergli. Nella striscia che segue continuerà a mostrarci nel volto di Charlie Brown, con due colpi di matita, la sua versione della condizione umana.
Umberto Eco.